«Siamo un gruppo di detenuti reclusi presso il Carcere di Rebibbia». Inizia così una delle lettere pubblicate dal settimanale Vita il primo luglio, che prosegue: «Come forse ancora non si sa bene, soffriamo dell’affollamento delle carceri, ma non è questo il problema. Ormai siamo abituati a stare in sei in una cella di 20 mq, con una sola toilette. Il vitto è spesso scarso e immangiabile, ma non è questo il problema. Compriamo il sopravvitto, ci facciamo portare dai parenti del buon cibo e sopravviviamo. C’è carenza di personale, gli agenti fanno turni pesanti, che a volte li rendono giustamente nervosi, ma non è questo il problema. Sappiamo attendere con pazienza il nostro turno, da tre a sei mesi, per le terapie medico cliniche. Con la legge “svuota carceri” ben poco è cambiato per i circa 70mila detenuti (non 60mila come si dice), ma non è questo il problema. Anche se a volte l’illusione fa male, ci siamo abituati. Se i nostri parenti, che ci vengono a trovare, vedessero come viviamo si incatenerebbero ai cancelli, ma non è questo il problema. Quando arrivano ci facciamo belli e sorridenti e diciamo “tutto bene”. Nascondiamo il fatto di vivere con un 30% di casi psichiatrici gravi, malati di varie malattie infettive, tossicodipendenti, persone “fuse di testa” con manie di persecuzione, pronte a litigare per futili motivi e tanto di più. Di certo non sono questi i problemi, perché noi siamo a favore della certezza della pena!».

La lettera prosegue poi con un’interessante riflessione che il gruppo di detenuti rivolge al presidente del Consiglio, rivendicando non tanto la certezza della pena, ma quella del reato. Ma è sui tanti glissando di questa prima parte che vogliamo concentrare la nostra attenzione. Perché, nonostante l’arguto sarcasmo che permea queste parole, si capisce che tutti gli episodi citati costituiscono la quotidianità per chi sta scontando la pena nel carcere romano, e sono un ulteriore peso da sopportare, non previsto da alcun codice né sentenza. Con 45mila posti effettivamente disponibili, contro i circa 70mila occupati, l’Italia dimostra di essere un Paese che non crede nel valore educativo della reclusione. Inutile citare per l’ennesima volta le esemplari carceri scandinave; l’atmosfera dalle nostre parti è ancora troppo calda. Si parla di un tasso di suicidio venti volte più alto rispetto al mondo che sta dall’altra parte delle sbarre. Al 30 di giugno 2011 già trenta persone si erano tolte la vita in carcere.

«Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Miché». Nella prima canzone scritta da De André, la Ballata del Miché, del 1961, il protagonista si toglie la vita perché non sopporta l’idea di restare vent’anni lontano dalla sua donna, per amore della quale ha commesso un omicidio. Molto meno romanzesca la situazione reale, che comunque non finisce quasi mai sulle pagine dei giornali o negli interventi dei politici, se non di fronte a casi eclatanti. Eccezion fatta per i Radicali -Marco Pannella è in sciopero della fame dal 20 aprile per protestare contro le condizioni di vita dei detenuti. Vi lasciamo con le illuminanti quanto spietate parole del sociologo Luca Ricolfi dalle colonne de La Stampa: «Oggi in Italia, di fronte allo Stato e ai suoi apparati, troppe volte il singolo cittadino è inerme, sottoposto a ogni tipo di vessazione, arbitrio, ricatto, abuso, negligenza, sordità. Sotto questo profilo, a 150 anni dall’Unità d’Italia siamo ancora sudditi, e non cittadini». Ecco, è questo il problema.