Un’inchiesta di Antonio Crispino, pubblicata “a puntate” dal sito del Corriere, sta facendo luce su quello che egli non esita a definire «l’inferno delle carceri italiane». Sulla nostra testata ci siamo spesso soffermati sull’argomento, evidenziando il problema del sovraffollamento (148 per cento, siamo i peggiori in Europa dopo la Serbia) e seguendo l’iter legislativo delle norme di riforma della detenzione. I numeri però non sempre rendono un’idea tangibile della realtà. Non quanto le immagini o la testimonianza diretta. Ossia ciò che il giornalista ha raccolto e che il giornale di via Solferino sta pubblicando. Non senza difficoltà, dato che le autorità penitenziarie non sono mai troppo collaborative con la stampa quando questa prova a fare il proprio mestiere. Ciò che le prime vorrebbero mostrare è il lato sano della detenzione, infatti le persone scelte per essere intervistate sono serene, magari lavorano durante la detenzione.

Ma è negli interstizi che si cela il virus: «In una cella originariamente adibita al transito, ci sono otto detenuti -si legge nel primo articolo uscito. Scendono dai letti solo in quattro perché tutti in piedi non ci starebbero, fanno a turno. Hanno la tazza del water accanto al tavolino dove mangiano. Non c’è un muro divisorio o un paravento. I bisogni si fanno “a vista”, davanti a tutti. Ci sono quattro livelli di brande, l’ultima arriva proprio fin sotto il soffitto. Non c’è una scala per salire (in carcere è vietata). Chi capita ai piani alti deve arrampicarsi sugli altri. Ci dicono di andare avanti». No, non siamo in Corea del Nord, ma nel carcere “Gazzi” di Messina.

Nel secondo episodio Crispino si trova tra le mura di Canton Mombello, Brescia, l’istituto più sovraffollato d’Italia: «È una vecchia struttura di fine ‘800. Il sovraffollamento è al 260 per cento. Ci dovrebbero essere 200 persone e invece ne sono affastellate quasi 600, il triplo». Nella terza pubblicazione, uscita ieri, si arriva a una questione ancor più vergognosa, ossia i ripetuti pestaggi commessi dalle guardie contro i detenuti. Ad Asti, da alcune intercettazioni effettuate seguendo una pista di spaccio di droga all’interno del carcere, si è scoperto per caso quest’altro filone: «Vengono fuori pestaggi gratuiti, ingiustificati, coperti dall’omertà degli altri agenti, il digiuno forzato (fin anche una settimana) e poi le celle. Quelle di isolamento».

Nel corso del processo una ex guardia penitenziaria cacciata dal corpo per favoreggiamento ai detenuti e altri reati, racconta particolari agghiaccianti. «Tutti riscontrati nel processo di primo grado conclusosi a fine gennaio scorso. “Tutti assolti” scrive il giudice». Questo perché nel nostro ordinamento ancora non esiste il reato di tortura. E qui ci ricolleghiamo a quanto dicevamo parlando del film “Diaz. Don’t clean up this blood”, di Daniele Vicari.

Aggiungiamo che ciò che deve insegnarci il racconto della guardia, così come l’episodio di Genova, è che grazie a chi gira il volto dall’altra parte sono possibili crimini efferati. Sono sempre una minoranza i promotori delle violenze, ma è grazie alla sempre nutrita schiera di chi vede e non prende posizione che questi piccoli gruppi riescono a portare a termine enormi delitti. Oggi più che mai è sempre verde il ritornello della “Canzone del Maggio” di De André (ispirata al ’68 francese che scoppiava proprio il 3 maggio di 44 anni fa): Per quanto voi vi crediate assolti / siete lo stesso coinvolti.