
È passato già un anno dalla nomina di Carlo Cottarelli a commissario alla spending review, e per il cremonese è venuto il tempo di fare le valigie e tornare a Washington D.C., dove riprenderà le sue attività al Fondo monetario internazionale. Doveva durare tre anni l’impegno del commissario, o almeno questa era stata la preghiera dell’allora presidente del Consiglio Enrico Letta. Per l’attuale inquilino di palazzo Chigi, non c’è bisogno che Cottarelli si trattenga oltre, quindi il primo novembre questi lascerà il suo ufficio come previsto dal contratto. Forse colpito anch’egli dall’oggetto del suo incarico, la revisione della spesa, si è deciso di risparmiare ulteriori 258mila euro lordi annui previsti come compenso per i suoi servizi.
Leggendo le interviste più recenti, le parole di Cottarelli appaiono concilianti nei confronti di Matteo Renzi, ma è inutile negare che nel corso dei mesi gli attriti sono stati evidenti, e alcune tracce restano tuttora visibili sul blog tenuto, un po’ a singhiozzo, da Cottarelli. «Si sta diffondendo la pratica di autorizzare nuove spese indicando che la copertura sarà trovata attraverso future operazioni di revisione della spesa o, in assenza di queste, attraverso tagli lineari delle spese ministeriali», scriveva il 30 luglio 2014. «Cosa significa questo in prospettiva? Significa che le risorse che deriveranno dalla revisione della spesa per il 2015 non potranno essere usate per la riduzione della tassazione (o del deficit o per effettuare altre spese prioritarie). Oppure che si dovranno attivare i sopracitati tagli lineari. Credo sia una tendenza preoccupante perché, continuando così, nuove spese saranno finanziate o tramite risparmi che non sono stati ancora approvati a livello politico, o attraverso i famigerati tagli lineari che la revisione della spesa vorrebbe evitare».
Andando a ritroso, il 7 luglio veniva pubblicato un post intitolato “La giungla delle partecipate locali”. Un aspetto sul quale Cottarelli, per quanto armato di buone intenzioni, nulla ha potuto. «Lei aveva proposto di ridurle da ottomila a mille, nella legge di Stabilità non c’è nulla», lo incalza il giornalista Alessandro Barbera in un’intervista pubblicata su La Stampa. La risposta è lapidaria: «Sulle partecipate le cose stanno come dice lei, non so cosa risponderle». Parole al vento le sue, insomma. Traspare, al di là dell’evidente intenzione di non lasciarsi alle spalle una rottura con l’attuale classe dirigente italiana, un sentimento di impotenza nell’assolvere al compito assegnatogli. Al punto che Cottarelli arriva a chiedersi, al momento dell’incarico, il senso di quella nomina: «le decisioni le deve prendere la politica, non un commissario. Quando mi chiamarono anche io mi chiesi perché ci fosse bisogno di una figura del genere». I mesi avvenire devono avergli fornito varie risposte.
Tra i tanti limiti posti all’opera del commissario, c’erano i vincoli e le pratiche “esoteriche” (nel senso etimologico del termine) della burocrazia, che si ripercuotono su tutti gli aspetti della vita del Paese: «Occorrerebbe cambiare la testa di chi scrive le leggi, mi rendo conto che non è semplice. Sarebbe un passo avanti se i collaboratori più stretti dei ministri controllassero meglio i testi che vengono approvati. E poi in Italia si fanno troppe leggi. Ogni settimana si sente l’urgenza di scriverne qualcuna. Più ce ne sono, più è difficile applicarle, maggiore è il livello di discrezionalità». Al Corriere il commissario ha dichiarato che la resistenza più grande era costituita dal «sistema dei capi di gabinetto, ecco. Si conoscono tutti tra loro, parlano tutti lo stesso linguaggio. E i capi degli uffici legislativi: hanno in mano tutto e scrivono leggi lunghissime (ride), difficilmente leggibili. Costituiscono un gruppo omogeneo, in cui è difficile entrare, con cui è difficile interagire. Spesso molti documenti non mi venivano dati. Non per cattiva intenzione, ma perché non facevo parte della struttura».
Ma il paletto più pesante, posto fin dall’inizio a limitare il raggio d’azione del commissario è stato probabilmente l’accordo – un po’ assurdo – per cui Cottarelli non si sarebbe dovuto occupare della voce di spesa più grande per il bilancio dello Stato (assieme alla salute): le pensioni. «È chiaro che c’è stata la scelta politica di non incidere sulle pensioni. Il ruolo del commissario è avanzare proposte. E io non potevo non farlo in un’area, le pensioni, che tocca i 270 miliardi. È una cifra semplicemente troppo grossa per ignorarla». Cottarelli se ne va, ma a noi resta la sensazione di non avere sfruttato abbastanza la sua figura, e peggio ancora l’idea che una politica che si affida ai commissari è una politica che non crede in se stessa e nelle proprie capacità di risolvere i problemi.