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È banale dirlo, ma in un altro Paese uno come Carlo Tavecchio sarebbe probabilmente già un lontano ricordo nel processo di selezione del nuovo presidente della federazione nazionale calcistica (in Italia Figc, Federazione italiana giuoco calcio). Le sue parole, pronunciate durante un lungo intervento relativo all’ingresso di stranieri nel campionato italiano, sono senza appello: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba – dice inventando un nome – è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree».

Sia chiaro, non crediamo che Tavecchio volesse intenzionalmente inserire un commento razzista nel suo intervento. La sua “gaffe”, come è stata definita, suona inconsapevole, pronunciata con ruspante semplicità in una di quelle digressioni che di solito finiscono con «tanto per intenderci». E invece non ci intendiamo proprio, caro Tavecchio (perdoni la confidenza). Il calcio è un ambiente che già deve scontare derive razziste da parte di alcune tifoserie (spesso piccoli gruppi che catturano tutta l’attenzione mediatica, screditando lo sport nel suo complesso). Con quale autorità potrebbe il futuro (ipotetico) presidente della Federazione condannare cori razzisti o lancio di banane in campo (cose già viste allo stadio), con un inciampo del genere alle spalle (nel suo pedigree, come direbbe lui). Il calcio ha bisogno di “smarcarsi” da tanti cliché che lo accompagnano, di diventare esempio di tolleranza e integrazione. È uno sport troppo popolare in Italia per potersi permettere di essere associato a valori negativi, come purtroppo spesso accade.

Le “gaffe” di Tavecchio non si fermano qui, perché in un’altra intervista, in cui parlava da presidente della Lega nazionale dilettanti, si è lasciato sfuggire un’altra frase infelice: «Si pensava che le donne fossero handicappate rispetto al maschio, ma abbiamo riscontrato che sono molto simili». Dopo il razzismo, il machismo, altra brutta faccenda che grava sul calcio italiano. Per carità, a scavare nel passato di chiunque si troverebbero frasi e “battute” molto lontane dal politically correct. Ma un conto è fare due chiacchiere al bar bevendo un caffè, un altro fare dichiarazioni in occasioni pubbliche o durante interviste con la stampa. Nel secondo caso è bene soppesare le parole, avere uno stile comunicativo coerente col ruolo che si ricopre (o al quale si aspira). Altrimenti, meglio farsi da parte. Non sarà una battuta a cancellare le competenze di un professionista, ma il presidente della Figc non è un impiegato che gestisce scartoffie nel privato del suo ufficio, bensì un personaggio pubblico.

Per completare il quadro (e siamo alla terza gaffe in pochi giorni), il Nostro ha dichiarato a Radio1 che «L’assassino di John Kennedy non ha subìto quello che ho subìto in questi giorni». Anche qui parole avventate, visto che Lee Oswald è stato assassinato due giorni dopo aver ucciso il presidente degli Stati Uniti. Nonostante tutto, sui giornali si rincorrono le dichiarazioni a sostegno della candidatura di Tavecchio. Alcuni presidenti di squadre si siano dissociati, ma poi si trova sempre il modo di sostenere che le parole sono “indifendibili”, ma l’uomo sì. La sottile quanto illogica conclusione è che le parole erano offensive, ma chi le ha pronunciate non voleva offendere. Non possiamo credere che tra tutte le personalità impegnate nel mondo del calcio professionistico, la figura di Tavecchio sia il massimo che si riesce a esprimere. E se così fosse, sarebbe bene riflettere sui meccanismi di carriera nel mondo del calcio.