Quando qualcuno conduce una presidenza disastrosa, ed è costretto a dimettersi per preservare, se non la faccia, almeno la decenza, poi dovrebbe sparire dalla circolazione. E invece uno dei problemi dell’Italia sono le persone che se ne vanno, ma in realtà non se ne vanno. Oppure vanno, ma tornano, perché sanno che attorno ci sarà sempre qualcuno pronto a dargli retta, ad allungargli il microfono per raccogliere una dichiarazione, ad offrirgli una poltroncina.

Spesso si dice che alcune operazioni di comunicazione politica servono a “normalizzare” i candidati più impresentabili. Ecco, in Italia non c’è bisogno di alcuna macchina comunicativa. Un “trattamento di normalizzazione” non si nega a nessuno. Prendiamo un esempio sul quale siamo tornati più volte (senza accanimento, per carità): Carlo Tavecchio. Proprio qualche giorno fa ricorreva il primo anniversario dalle sue dimissioni, dopo la disastrosa prestazione dell’Italia alle fasi di qualificazione degli ultimi Mondiali di calcio.

Cosa fa Tavecchio per festeggiare il primo anno dalla sua uscita di scena? Va allo stadio a vedere l’Italia. Ma non basta: dichiara. Siamo consapevoli che il problema stia sempre in chi gli mette il microfono davanti, o tira fuori il taccuino mentre lui comincia a parlare. Ma intanto, con che coraggio parli, discuti, mandi frecciatine, dopo che i fatti hanno dimostrato la tua inadeguatezza? «Torno qui sereno». E ti pareva. In Italia nessuno è preoccupato mai di nulla, soprattutto se ha abbandonato la nave prima dell’inabissamento. È un po’ come quando i ragazzini dicono ai genitori “non vi preoccupate”, e a quelli si gela il sangue nelle vene. «Sono qui per incoraggiare l’Italia perché dobbiamo vincere, il mio apporto non mancherà mai». Qui la tensione deve avere colpito molti, nel timore che tale “apporto” possa concretizzarsi in ulteriori future collaborazioni con la Figc. «La Nazionale ce l’ho sempre nel cuore, se mi sono dimesso è per amore. Qualcuno doveva prendersi la responsabilità». Beh, visti i risultati, chi è il “qualcuno” che doveva prendersi la responsabilità, se non il presidente? Tra l’altro non si è trattato di dimissioni immediate, segno che dev’esserci stato un forte turbamento nel rendersi conto che sì, il primo responsabile quando si va incontro al disastro è proprio la testa, il presidente.

Ma il processo di normalizzazione va oltre quando Tavecchio si mette a discettare di calcio come un qualsiasi giornalista sportivo, come una delle tante voci autorevoli dello sport: «Oggi è una partita da tre punti, ma lui mette in campo i giovani. Un conto sono le amichevoli e un conto i tre punti. Oggi conta vincere».

Ribadiamo che non ce l’abbiamo con Tavecchio, ma con l’archetipo che suo malgrado si trova a rappresentare, e con gli quelli che contribuisce a smascherare (leggi: i giornali che danno risalto alle sue dichiarazioni). Poi c’è chi interpreta ed esagera le sue parole, giusto per alzare i toni, come il Giornale, che titola Tavecchio: “C’era un complotto in atto per mandarmi via”. Leggendo l’articolo non si trova menzione di alcun complotto. Tavecchio dice solo «Sono convinto che a San Siro contro la Svezia ce ne fossero parecchi che speravano nell’eliminazione degli azzurri come unico modo per rovesciarmi». Un complotto apotropaico, armato di corna e cornetti. Forse sbagliamo ad accenderci tanto per un fatto tutto sommato irrilevante, utile solo a riempire qualche riga sui giornali sportivi, forse a corto di argomenti visto che poi quella partita dell’Italia è finita zero a zero.

Però almeno un effetto positivo l’ha avuto la parabola di Carlo Tavecchio: tutti sapremo chi è stato presidente della Figc dal 2014 al 2018. Alzi la mano chi sa il nome dell’attuale presidente (non vale googlare). Pochi probabilmente. Se l’obiettivo è essere ricordati, per meriti o demeriti, è stato pienamente raggiunto. Ma, ripetiamo, il problema non è Tavecchio, ma i tavecchio che si aggirano tra noi, che non abbiamo ancora riconosciuto e verso i quali non abbiamo sviluppato gli anticorpi.

(Foto da Wikipedia)