Secondo uno studio pubblicato su Lancet il 3 aprile, la cattiva dieta è il principale fattore di rischio per le malattie non trasmissibili. L’articolo è una revisione sistematica, dunque mette insieme i risultati di numerosi studi precedenti, prende in considerazione 195 paesi nel mondo e le osservazioni coprono il periodo dal 1990 al 2017.

Che cosa sono i DALY

Prima di continuare, bisogna spiegare che cosa sono i DALY. L’acronimo sta per Disability-adjusted life year, e indica l’impatto globale di uno o più fattori di rischio, espresso come la somma degli anni di vita persi a causa di una certa patologia, e di quelli vissuti con malattia o disabilità dovuta allo stesso fattore. Di seguito un’infografica che chiarisce il concetto.

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Nel 2017, si legge nello studio, 11 milioni di morti e 255 milioni di DALY sono stati causati da problemi legati all’alimentazione. In particolare un eccessivo consumo di sodio (3 milioni di morti, 70 milioni di DALY), e uno scarso apporto di cereali integrali (3 milioni di morti e 82 milioni di DALY) e di frutta (2 milioni di morti e 65 milioni di DALY).

Una conferma di ciò che già si pensava

Da tempo la ricerca scientifica evidenzia una potenziale correlazione tra una dieta scorretta (composta per esempio da poca frutta e verdura e troppa carne processata e grassi idrogenati trans) e alcune malattie (problemi cardiovascolari, diabete, tumori del colon-retto). I risultati riscontrati negli anni sono stati alla base di politiche di sensibilizzazione per indurre le persone ad assumere comportamenti alimentari più sani e corretti. Ciò che mancava era una revisione sistematica dell’argomento, che prendesse in esame una grande area geografica, mettendo a confronto parametri costanti. I ricercatori hanno quindi raccolto (a partire da ricerche fatte in precedenza) i dati relativi al consumo di 15 tipologie di alimenti tra le persone dai 25 anni in su, arrivando a coprire 195 paesi, partendo dal 1990 e arrivando al 2017. Per misurare l’impatto delle abitudini alimentari sulla salute, è stato individuato un “livello ottimale di consumo” dei vari alimenti, definito (attraverso calcoli statistici) come la quantità di cibo in cui il livello di esposizione al rischio è minimo rispetto a tutte le cause di morte.

Quasi nessuno rispetta una dieta ottimale

A livello globale, il consumo di quasi tutti gli alimenti e nutrienti considerati sani era sotto i livelli ottimali. La differenza più marcata si è registrata nel consumo di frutta a guscio e semi (12 per cento di quanto raccomandato), latte (16 per cento) e cereali integrali (23 per cento). Parallelamente, l’apporto di alimenti considerati dannosi per la salute è stato quasi sempre eccesivo, soprattutto per quanto riguarda le bevande con zuccheri aggiunti, ma anche le carni processate (90 per cento oltre il consumo ottimale), sodio (86 per cento), carni rosse (18 per cento). Questo grafico, per quanto non eccezionale graficamente, mostra bene le differenze. L’area verde è quella considerata ottimale e, come si può vedere, le diverse barre (che identificano le aree geografiche) sono generalmente molto corte quando si tratta di cibi sani, mentre sconfinano decisamente nel caso di cibi dannosi per la salute. Alcune eccezioni si registrano nei consumi ottimali, che sono raggiunti per quanto riguarda le verdure nell’Asia centrale e per i grassi omega-3 i nell’area dell’Asia che si affaccia sull’Oceano Pacifico. Il Nord America va invece molto male per le carni processate, consumate in maniera decisamente eccessiva.

infografica alimentazione
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Quali sono i problemi da affrontare

Nonostante molte iniziative siano state messe in atto in diverse parti del mondo per migliorare le abitudini dei cittadini, i ricercatori individuano alcune sfide da affrontare per migliorare la dieta dei cittadini e quindi il loro stato di salute.

  1. Gli effetti delle campagne messe in atto finora non sono stati sufficienti a raggiungere i livelli ottimali.

  2. Non ci sono prove di effetti positivi avuti da questo tipo di iniziative sul consumo di molti alimenti importanti (frutta a guscio, cereali integrali, pesce, carni rosse e carni processate).

  3. Le analisi costi-benefici delle campagne sulle abitudini alimentari sono generalmente basate su eccessive semplificazioni e non tengono conto della reazione dei consumatori (ad esempio l’effetto di sostituzione), dell’industria alimentare (ad esempio il modo in cui vengono “ripensati” certi prodotti per reagire a cali nei consumi o le strategie di prezzo per promuoverli) e degli stakeholder in generale.

  4. Nonostante l’aumento del numero dei paesi impegnati in campagne sulle abitudini alimentari, pochi di loro le hanno adottate e messe a frutto pienamente.

  5. Molte campagne si rivolgono esclusivamente ai consumatori e non prendono in considerazione una serie di fattori interconnessi, come l’industria legata alla produzione, trasformazione e distribuzione del cibo.

(Photo by Alex Kotomanov on Unsplash)