Il 31 agosto è morto il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei più importanti scienziati italiani del nostro tempo. Grazie al suo intuito, e avendo la possibilità di collaborare con colleghi di altissimo livello, Cavalli-Sforza ha contribuito a imprimere una grande accelerazione allo studio sul genoma umano. Per semplificare (forse eccessivamente) potremmo dire che grazie a lui possiamo abbozzare una risposta a domande basilari quali chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.
L’intuizione più importante di Cavalli-Sforza è stata utilizzare le mutazioni genetiche come marcatori storici. Da qui è partita una ricerca che l’ha portato, con un approccio multidisciplinare – tratto peculiare della sua personalità –, a collaborare con lo statistico e genetista Ronald Fisher, a Cambridge. Da quegli anni è nata la consapevolezza che non vi sono steccati tra settori di studio, e per ricostruire il percorso dell’uomo sulla terra sono utili tanto l’archeologia quanto la linguistica, l’antropologia e, soprattutto, la genetica. Si possono incrociare dati relativi alla distribuzione dei cognomi con quelli sui gruppi sanguigni, in rapporto alla storia di paesi e villaggi.
Nel corso delle sue ricerche che, dopo Cambridge, l’hanno portato a Stanford negli anni ’70 e poi in Italia negli anni ’90, Cavalli-Sforza è arrivato (tra le altre cose) a un’importante conclusione: che le razze umane non esistono. Può apparire ovvio, ma dopo l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale, che col nazismo e il fascismo ha cercato di forzare le verità scientifiche a fini ideologici, che il più avanzato studio sul genoma umano arrivasse a una tale conclusione aveva un peso grandissimo, che va oltre l’ambito scientifico. «Aumentando la distanza geografica, la distanza genetica cresce, ma rimane sempre insignificante rispetto alle distanze che si trovano fra gli individui di una popolazione. Facendo la differenza fra due individui presi a caso in Europa – scriveva nel libro Geni, popoli e lingue –, ripetendo per molte coppie di individui e prendendone la media, e poi paragonandola con la differenza media fra un africano e un europeo, si trova un aumento molto modesto (nel secondo caso). Vale la pena di fare tutto il fracasso che piace di fare ai nazisti?».
Cavalli-Sforza non partiva con un’idea preconcetta quado ha cominciato a studiare e catalogare il genoma umano. Semplicemente, voleva verificare l’attendibilità di un’ipotesi scientifica, quella multiregionale, che allora prevaleva. Secondo tale assunto,homo sapiens sarebbe comparso molto tempo fa in diverse regioni del mondo, come evoluzione di diverse specie di ominidi precedenti. Se questa ipotesi fosse vera, gli studi avrebbero dovuto riscontrare una grande varianza genomica tra persone di continenti diversi, essendo queste frutto di un percorso genetico indipendente. Le ricerche invece provarono che mediamente tra gli esseri umani esiste una varianza dell’1-2 per mille nell’intero patrimonio genetico, un valore piccolissimo. Questi risultati avvalorano l’ipotesi oggi più accreditata, definita Out of Africa, secondo cui la nostra specie sarebbe comparsa piuttosto recentemente (circa 200mila anni fa) in Africa e poi, a più riprese, avrebbe lasciato il continente per colonizzare il resto del pianeta.
Siamo dunque nati da un unico ceppo africano, che appena qualche migliaio di generazioni fa ha cominciato a spostarsi. Un’altra conclusione a cui portano i risultati di questo progetto riguardano la natura migratoria dell’essere umano. Lo spostamento diventa il motore di una diversità biologica e culturale che costituisce la grande ricchezza della nostra specie. Grazie a Cavalli-Sforza, si è capito che le idee viaggiano attraverso le persone. Forse anche per questo ha sempre dato grande importanza alla ricerca sul campo. Numerosi i suoi viaggi in Africa per studiare popolazioni di nativi, come i Pigmei, notando anche l’attenzione all’impatto ambientale che la loro civiltà millenaria aveva sviluppato.
Cavalli-Sforza, oltre che scienziato, è stato un grande divulgatore, consapevole dell’impatto che le dichiarazioni della comunità scientifica possono avere nel dibattito pubblico e quindi nella vita delle persone. Per questo ha sempre portato avanti un discorso chiaro e misurato. «In una conferenza che tenne a Genova nel 2005 di fronte a centinaia di persone – ricorda l’editore Vittorio Bo –, la sua risposta a uno dei tantissimi giovani presenti che gli chiedeva come facesse a rendere così vicini argomenti complessi, Luca rispose semplicemente “non c’è nulla, o quasi, che uno scienziato non possa rendere comprensibile, purché lo voglia”. Ecco, in questa semplicità, mista a sapienza, sensibilità e senso dell’altro, sta il suo grande insegnamento. Nel suo farci sentire parte di una comunità che deve sapere, dialogare, comprendere».
(Foto di Wally Gobetz su flickr)