di Federico Caruso

Di jazz abbiamo parlato a varie riprese su questo blog, non da ultimo in occasione dell’istituzione di un’apposita giornata internazionale da parte dell’Unesco, fissata per il 30 aprile. Oggi torniamo sull’argomento per dare spazio a un appello lanciato dai professionisti di questa musica, che non vedono il jazz italiano supportato e valorizzato dallo Stato al pari della musica classica, cui tradizionalmente è destinata la maggior parte dei finanziamenti pubblici. L’appello, che sarà discusso mercoledì 13 febbraio con incontro a Roma presso l’Agis (ore 15, via Villa Patrizi 10), si può leggere sul sito internet “X il jazz”. Esso fa riferimento a precise e documentate informazioni che mettono a nudo tutta l’inadeguatezza dell’attuale gestione dei fondi in rapporto al peso culturale che questa musica si è conquistata.

Innanzitutto si fa notare come il jazz abbia avuto un grande influsso sulla musica di tutti i tempi e i luoghi che ha attraversato da un secolo a questa parte, ossia dalla sua nascita. «Il cinema, dai cartoons degli anni Venti fino a Woody Allen; la danza, dal fox trot fino a Carolyn Carlson; la pittura, da Mondrian a Basquiat; la letteratura, da Fitzgerald a Cortazar; la musica accademica, da Stravinskij a Penderecki; la sociologia perfino, se pensiamo alle teorie di Alfred Schütz». Si sottolinea poi la capacità del jazz di far dialogare gruppi ed etnie che al di fuori della musica si erano sempre rapportate in una logica di contrapposizione, in particolare se si pensa alle sue origini di musica dei migranti degli Stati Uniti: polacchi, italiani, cinesi, irlandesi, i discendenti degli schiavi. Ma queste, bene o male, sono cose che si sanno, o si possono sapere con un minimo di sforzo.

Più interessanti sono i dati sulla situazione attuale, in Italia e nel resto d’Europa, in merito all’accesso alle risorse pubbliche da parte di festival e altre iniziative culturali a sfondo jazzistico. L’esempio più lampante arriva, come spesso accade, dal Nord Europa. In Norvegia, per cominciare, «il Norsk Jazzforum viene finanziato con 1.475.965 di euro l’anno, mentre i tre centri jazz regionali percepiscono un totale di 1.103.349 euro. Utile rilevare che le cifre menzionate non comprendono i finanziamenti ai maggiori festival, che avvengono per altri canali. Al jazz va inoltre circa un terzo dei finanziamenti di Rikskonsertene, per ulteriori 5.534.040 euro. Con un tale investimento, e con tutto il rispetto per l’elevatissima qualità dei musicisti norvegesi, non c’è da stupirsi se il mondo s’è accorto dell’esistenza del jazz norvegese». Considerazione amara quanto inopinabile.

Ma se la Norvegia rappresenta la punta d’eccellenza europea, in altri Paesi non va poi tanto peggio. Questi i guadagni delle maggiori associazioni che si occupano di jazz in Europa: «Jazz Danmark, 976.740 euro; Jazz Services Ltd. (il suo ambito è limitato all’Inghilterra e non comprende il resto del Regno Unito), 547.055 euro; Finnish Jazz Federation, 434.658 euro; Swedish Jazz Federation, 790.000 euro; Afijma (Francia), 364.783 euro». E in Italia come vanno le cose? «L’unica struttura federativa paragonabile in Italia è l’associazione I-Jazz, che percepisce dal Ministero 12.000 euro l’anno. Poco meno di un quinto della Hungarian Jazz Federation, finanziata per 60.589 euro l’anno, in un Paese con una scena jazzistica del tutto sconosciuta fuori dai confini nazionali». I dati sono tratti da una ricerca commissionata dall’associazione Europe Jazz Network, che consorzia circa 90 soci in 28 Paesi, fondata in Italia nel 1987 e poi emigrata a Parigi per il disinteresse delle istituzioni italiane.

I firmatari dell’appello (che ha già superato le 2.500 firme di artisti e appassionati autorevoli) espongono poi una serie di proposte dirette alla classe politica, fra cui l’istituzione di un’orchestra nazionale del jazz, dotata di fondi per la creazione di nuovo repertorio, e per la diffusione di questa musica sul territorio; uno speciale fondo per il sostegno dell’attività all’estero; un costante lavoro sulla formazione e sul decentramento, nella ricerca di nuovo pubblico a partire dalle scuole; una più ampia presenza nelle commissioni di valutazione di esperti di musica jazz ed attuale, e l’inclusione di commissari designati “dal basso”; la creazione di un fondo per la cooperazione, volto a favorire le strutture di musicisti associati e le co-produzioni fra strutture organizzative. Insomma, per sgomberare il campo da un altro facile cliché, il jazz non è solo improvvisazione, bensì soprattutto pianificazione.