Nel dibattito sulle riaperture delle attività sospese durante il lockdown, non si sta parlando molto di università. Queste ultime sono state tra le prime strutture a vedere le proprie attività di didattica trasferite online. Ma mentre si sta facendo di tutto per garantire gli esami di maturità in presenza agli studenti delle superiori, e si parla esplicitamente di ricominciare regolarmente in classe l’anno scolastico a settembre, per quanto riguarda l’università sembra si riponga una maggiore fiducia nel ricorso alla didattica a distanza anche sul lungo periodo. Questa situazione sta destando perplessità, sia tra il personale docente, sia tra gli studenti.

Il parere dei docenti

In questi giorni 870 professori universitari e ricercatori hanno firmato una lettera aperta, indirizzata a Gaetano Manfredi, ministro dell’Università e della ricerca scientifica. «Si riapre la mobilità fra Regioni – si legge nella lettera – sono state assunte misure per la progressiva riapertura di fabbriche, uffici, esercizi commerciali, enti pubblici, e anche dei luoghi di ritrovo e di socializzazione, ma nessuna misura relativa alla riapertura delle Università. Si sono studiati (fortunatamente) protocolli per far svolgere in sicurezza gli esami di Maturità in presenza, ma non gli esami universitari delle sessioni estive. Temiamo che quando si dice che “conviene” proseguire l’insegnamento in modo prevalentemente telematico fino a gennaio 2021, si pensi che l’istruzione superiore italiana conti meno delle vacanze in spiaggia, dell’aperitivo al bar, del giro al centro commerciale». Se per quanto riguarda la scuola ci si è molto concentrati sull’importanza di entrare in relazione diretta, sembra si dia per scontato che l’università consista principalmente in una trasmissione di nozioni, e che questo possa quindi avvenire facilmente anche a distanza. «In un mondo in cui le “informazioni” si trovano sul web, le università garantiscono l’educazione al senso critico, alla capacità di selezionare le informazioni per risolvere specifici problemi, e soprattutto a porne di nuovi. Devono provare l’impresa titanica di garantire, nell’epoca della rete, l’habeas mentem dei ragazzi che le frequentano. E questo è un compito che si può assolvere solo attraverso l’esperienza della vita universitaria: il senso critico e la creatività nell’uso del sapere si possono insegnare e apprendere, ma non meccanicamente “trasferire”. Il compito delle Università è, a nostro parere, insegnare “a”, insegnare “come”, non insegnare nozioni».

Il punto di vista degli studenti

Su Minima et moralia è stato pubblicato l’articolo di una studentessa, Silvia Grasso, che conferma le preoccupazioni per le intenzioni del governo di non riprendere le attività in presenza, e più in generale per una certa idea di università diffusa nelle istituzioni, che ne influenza l’organizzazione e il funzionamento. «Il rischio che sembra prospettarsi è quello del distanziamento sociale permanente in assenza di un piano progettuale pronto a gestire la crisi la cui programmazione, mi preme ricordare, non consiste nell’avere una soluzione univoca (questo sarebbe impossibile) ma nell’essere capaci di una flessibilità di azione e di pensiero, una capacità di gestione e mutamento, in altri termini nella costruzione di una cultura del rischio, che è soprattutto un progetto politico», scrive Grasso. Il dibattito tende spesso a spostarsi sull’atteggiamento da tenere nei confronti della tecnologia all’interno della didattica, e si tende a presentare il problema come uno scontro tra fazioni contrapposte tra chi è a favore e chi è contro. «Ma la tecnologia non è certo il vero problema, non lo è mai stato; lo è, semmai, l’impreparazione del contesto culturale, politico ed economico, in cui lo sviluppo tecnologico si inserisce e agisce. […] L’offerta formativa diventa un ricco catalogo la cui scelta dovrebbe determinare futuri brillanti e gli operai del sapere diventano ripetitori automatici della ricetta perfetta per i loro atenei di eccellenza». Grasso propone poi una visione più ampia sul mondo dell’università e del lavoro: «Nel nostro paese cultura, formazione, università, risentono da decenni di un clima ostile di disapprovazione sociale che si traduce praticamente in politiche cieche di tagli di fondi, di stipendi bloccati, di riduzioni della spesa e per ultimo di piani di reinvenzione lavorativa con i vari accordi stipulati tra università e aziende che, se in teoria potrebbero funzionare, in pratica svelano l’utopia del collocamento in un paese il cui problema principale è il lavoro».

(Foto di Matthieu Joannon su Unsplash)