«I più importanti valori che oggi accomunano gli italiani sono il senso della famiglia (indicato dal 65 per cento dei cittadini), il gusto per la qualità della vita (25 per cento), la tradizione religiosa (21 per cento) e l’amore per il bello (20 per cento)». Inizia così il comunicato stampa che accompagna la presentazione (avvenuta due giorni fa a Roma) della ricerca “I valori degli italiani”, realizzata dal Censis nell’ambito delle attività per le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia.
Rispetto alla stessa indagine svolta venticinque anni fa, la chiave di lettura dei risultati sembra una spiccata contrazione della fiducia nell’individualismo. Fin dai tempi del boom economico degli anni ’60, in Italia lo sviluppo è stato guidato dall’individuo. «L’individualismo, il primato del soggetto sulla norma, è il grande filo conduttore di questi anni», ha spiegato il presidente del Censis Giuseppe De Rita. «Nel sociale pensiamo all’aborto e al divorzio, nella vita privata alla soggettività emotiva e sessuale». E in economia si potrebbe pensare alle migliaia di piccole e piccolissime imprese, vere forze motrici del Paese, seppure messe in difficoltà dalla crisi.
Il punto, però, è che questa soggettività «non si è concretizzata in classe sociale», secondo De Rita. Il numero di piccoli imprenditori, con l’avanzare degli anni ’90, si è ridotto drasticamente, e oggi gli italiani si stanno riscoprendo diversi. Meno individuo e più comunità, e quindi famiglia. Certo, il concetto è cambiato nel frattempo. «Meno coppie coniugate -prosegue il comunicato-, più coppie ricostituite, tante le unioni libere, che nel periodo 1998-2009 sono aumentate (+541mila, arrivando in totale a 881mila). E “più del 90 per cento degli italiani si dichiara soddisfatto delle relazioni familiari”, dice il rapporto della Fondazione».
Sta forse perdendo fascino il cliché del giovane “dinamico” che pone la carriera al primo posto, come fonte principale dello sviluppo personale? Certo, in tempo di crisi è anche normale che succeda. Se il lavoro è un privilegio, è normale tornare a investire su altri aspetti della vita, in attesa di tempi migliori. E così potrebbe spiegarsi anche il ritorno alla spiritualità: «L’82 per cento degli italiani pensa che esiste una sfera trascendente o spirituale che va oltre la realtà materiale. Di questi, il 66 per cento si dichiara credente e il 16 per cento lo pensa anche se non si dichiara osservante. Ma due terzi degli italiani di fatto non entrano mai nei luoghi di culto, e solo un terzo vi si reca una o più volte alla settimana per partecipare alle funzioni religiose». Insomma, San Gennaro aiutaci tu, ma sentiamoci per sms.
Discorso analogo potrebbe farsi per il consumismo. Potendone acquistare meno, gli oggetti stanno tornando al loro ruolo funzionale, mentre si riduce lo spazio per il bene-status symbol. Inoltre aumenta la sensibilità verso gli sprechi: imparare a conservare piuttosto che spendere per avere di più. In un clima del genere, non stupisce una svolta giustizialista, che vede gli italiani favorevoli (con percentuali tra l’89 e il 71,5 per cento) a un incremento delle pene contro le droghe (pesanti e leggere), guida pericolosa, abuso di alcol, prostituzione. Come al solito, ci si dimentica che, più della severità della pena, è la probabilità di essere puniti che dissuade dal commettere reati.
Non si leggono dati altrettanto eclatanti e concordi sui valori da mettere in primo piano per una maggiore convivenza civile: «moralità e onestà (55,5 per cento), rispetto per gli altri (53,5 per cento) e solidarietà (33,5 per cento)». «Si potrebbe fare di meglio con la moralità -si chiede l’articolo del Fatto-, almeno in tempi di nuove inchieste, di ventennali di Mani Pulite, di politica “commissariata” dai tecnici?» E, aggiungiamo, di indici di corruzione ai massimi storici, e con una normativa ancora inadeguata in merito?