La popolarità dell’Unione europea presso i cittadini non è certo ai suoi massimi storici. Bruxelles è diventata ormai sinonimo di burocrazia e regole assurde che poco hanno a che fare con la realtà che le persone affrontano ogni giorno. Ultimamente l’Ue ha pure messo bocca su come bisogna produrre il formaggio. L’Italia ha una delle norme più severe in termini di prodotti caseari. Come riporta il Post, «La legge 138 del 1974, al comma c dell’articolo 1, prescrive che è vietata la detenzione, la produzione e la vendita di “prodotti caseari preparati con i prodotti di cui alle lettere a) e b) [cioè latte fresco a cui è stato aggiunto latte in polvere] o derivati comunque da latte in polvere”».
Da un lato bisogna ammettere che certi giornali italiani hanno cavalcato la notizia creando un eccessivo allarmismo. Su tutti La Stampa, che titola “L’Ue ci impone il formaggio senza latte”. Il contenuto dell’articolo è poi meno sbrigativo di quanto si possa pensare leggendo il titolo nello spiegare le osservazioni della Commissione, contenute in una lettera che mette l’Italia in mora. Va detto che la questione è lungi dall’essere decisa (e non è detto che le ragioni dell’Europa abbiano la meglio). Prima che l’atto possa tradursi in una multa ai danni del nostro Paese deve svolgersi una prassi che prevede la possibilità che l’Italia discuta a proposito dei rilievi dell’istituzione comunitaria. «Secondo il Corriere della Sera, il governo italiano si incontrerà il 24 luglio con alcuni rappresentanti della Commissione per discutere del problema – continua il Post –. Nel caso uno stato decida di non adeguarsi alle direttive della Commissione una volta esauriti i due mesi, la questione viene risolta dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee: le infrazioni, cioè le multe in denaro, vengono attivate solo nel momento in cui un paese non rispetta una sentenza della Corte di Giustizia sulla vicenda (al momento l’Italia ha 98 procedure d’infrazione pendenti con la Commissione Europea, circa la metà delle quali ancora allo stadio della “messa in mora”)». Sostanzialmente, la Commissione contesta il fatto che in Italia non possano entrare alcuni prodotti (quelli realizzati con latte in polvere e altri surrogati del latte fresco), il che determina una posizione di svantaggio per i produttori esteri interessati a piazzare i propri “formaggi”.
D’altro canto, non si capisce bene perché il nostro Paese, da sempre un faro nella produzione di latticini di alto profilo, assieme alla Francia, debba abbassare i propri standard qualitativi per andare incontro a un mercato sempre alla ricerca del low cost. Le novità riguarderanno soprattutto i prodotti di fascia bassa, visto che le contestazioni non riguardano i formaggi Doc e Docg e nessuno vuole “imporre” all’Italia di non usare il latte fresco. In generale, però, si punta a lasciare che prodotti di scarsa qualità facciano concorrenza a una produzione che comunque mantiene degli standard piuttosto alti. Difficile pensare che questa novità possa portare un vantaggio ai cittadini e soprattutto alla loro salute. Prodotti più economici e meno curati andrebbero a fare concorrenza di prezzo in un mercato che la legge regolamenta con grande rigidità. Con la conseguenza che anche i produttori italiani sarebbero costretti (nonostante non vi sia un’imposizione esplicita) a cambiare le proprie procedure produttive per non soccombere, con un calo della qualità generale di ciò che arriva sullo scaffale.
Speriamo che la Commissione sia altrettanto determinata nel controllare che tutte le aziende casearie siano complete e trasparenti nello scrivere sull’etichetta la provenienza del prodotto. Come sempre in questi casi, la vera differenza la fa la capacità del cittadino di informarsi. Ecco perché potrebbe rivelarsi utile la lettura di un saggio pubblicato da Altroconsumo dal titolo “L’occasione fa l’uomo lardo. Manuale di resistenza in difesa dei prodotto tipici italiani e contro le truffe agroalimentari”. «Oltre a servire come “piatto forte” un’informazione costante e indipendente – si legge su Welfare network –, il libro rappresenta un manuale di resistenza – non solo per difendere i nostri prodotti a marchio – ma per mettere in discussione il sistema: un vero e proprio sintetico repertorio per provare nuove norme di consumo consapevole e responsabile, dai gruppi di acquisto solidali ai mercati contadini e ricostruire la propria “food policy”, dove cibo fa rima con territorio, la fiducia e la conoscenza del produttore conta più delle certificazioni e si restituisce la parola ai contadini che a Expo non hanno messo piede». Ristabilire la connessione col proprio territorio e con i prodotti che questo offre, senza però dimenticare di seguire le questioni internazionali che ci toccano da più vicino di quanto crediamo, è forse la via migliore per restare il più possibile al riparo da innovazioni che talvolta appaiono piuttosto anacronistiche.