Vi è mai capitato di sentirvi improvvisamente disorientati dopo un eccessivo “scrolling” sul vostro telefono, tablet o computer? Oppure vi è mai capitato di provare una specie di mal di mare giocando a un videogioco o guardando una serie tv particolarmente movimentata? Se sì, è probabile che abbiate sofferto della cosiddetta cybersickness, (o motion sickness, o cinetosi digitale).
Il fenomeno non è nuovo, e negli anni scorsi se ne parlava soprattutto come effetto collaterale delle esperienze di realtà virtuale con l’utilizzo di un visore che permetta un’esperienza immersiva.
Un articolo del New York Times del 2015 sottolineava come l’esperienza fosse già allora sempre più comune, secondo gli esperti di medicina e tecnologia. La cybersickness provoca un senso di stordimento, come di mal di mare, a causa della visione di contenuti digitali in movimento.
Come sintetizzato da uno degli esperti sentiti allora dal Times: «È una risposta naturale a un ambiente innaturale». La cinetosi digitale deriva infatti da un disallineamento tra gli input sensoriali. Il senso dell’equilibrio è diverso dagli altri perché trae le informazioni da diverse fonti. Quando gli stimoli non coincidono, si avvertono vertigini e nausea.
Nella tradizionale cinetosi, il disallineamento si verifica perché si percepisce il movimento nei muscoli e nelle articolazioni, nonché nelle intricate spire dell’orecchio interno, ma non lo si vede. Per questo, se si è in nave, andare sul ponte e guardare l’orizzonte aiuta a sentirsi meglio.
Con la cinetosi digitale, invece, accade il contrario. Si vede il movimento, come le curve e i colpi di scena mostrati in un film o in un videogioco, ma non lo si percepisce. Il risultato è lo stesso: si può avere un conflitto sensoriale che può provocare un senso di nausea.
Può capitare a chiunque, anche a chi non è soggetto a cinetosi in auto, in barca o in aereo. Diversi studi indicano che può colpire dal 50 all’80 per cento delle persone, a seconda della qualità del contenuto digitale e del modo in cui viene presentato.
Gli studi dimostrano che le donne sono più suscettibili degli uomini, così come le persone con una storia di emicrania o una commozione cerebrale.
Ma, al di là di videogiochi e serie tv, il problema riguarda anche esperienze molto più quotidiane e pervasive, come lo scrolling o il rapido rimbalzare da un’app all’altra sui propri device. Tutti quegli effetti volti a rendere più attraente l’esperienza, come le icone “fluttuanti” su alcuni dispositivi o animazioni di vario tipo dei vari elementi grafici, possono innescare il disturbo. Come uscirne?
Alcuni accorgimenti possono aiutare, come ad esempio impostare un limite alla velocità di scroll sul telefono o sul computer. Nelle proprietà di alcuni dispositivi ci sono impostazioni specificamente dedicate ad attenuare gli stimoli visivi, quindi si può fare qualche prova in tal senso.
Una delle soluzioni citata dal Times, non proprio la migliore a nostro avviso, è l’assuefazione: guardare, ad esempio, un film d’azione o giocare a un gioco di realtà virtuale per brevi periodi fino all’insorgenza di sintomi lievi, prendersi un momento di pausa e poi ripetere a intervalli specifici.
Questo però potrebbe, secondo alcuni esperti, “allenare” il cervello a ignorare stimoli sensoriali contrastanti, e quindi inibire la capacità di reagire in modo appropriato nel mondo reale.
Peraltro non sono ancora noti gli eventuali effetti a lungo termine del disturbo. Secondo uno studio che ha coinvolto più di mille soggetti in sessioni di realtà virtuale, l’entità dei postumi può essere forte e duratura. Quando i soggetti dello studio sono tornati nel mondo reale, hanno avuto problemi con la messa a fuoco visiva, il tracciamento delle immagini e la coordinazione occhio-mano.
L’idea più saggia quindi è limitare la durata delle nostre interazioni con i dispositivi che provocano sintomi riconducibili alla cybersickness, evitando usi prolungati e prendendosi le dovute pause.
(Foto di Sara Kurig su Unsplash)
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