Abbiamo parlato spesso dell’importanza dei dati aperti (open data) per favorire la ricerca scientifica. Il fatto che altri scienziati possano accedere ai dataset usati negli studi realizzati dai colleghi si è dimostrato molto importante durante la pandemia, sia per favorire la verifica di quanto pubblicato, sia per permettere di usare quegli stessi dati per ulteriori analisi.

Il dibattito sul tema è sempre acceso nella comunità scientifica. Un interessante editoriale uscito su Nature torna sull’argomento e parla dell’importanza di trovare un sistema per riconoscere a chi fa questo sforzo di condivisione il giusto credito.

C’è una forte pressione sui ricercatori affinché rendano i propri dati facilmente reperibili, accessibili, interoperabili e riutilizzabili (secondo il principio FAIR). Il problema è che poi questo lavoro di condivisione (che richiede tempo) non viene adeguatamente ripagato. Il problema, sottolinea Nature, sta nel fatto che i sistemi attuali di valutazione della ricerca scientifica non valutano (ancora) i dati condivisi apertamente nello stesso modo in cui valutano prodotti come gli articoli scientifici o i libri.

Coloro che occupano posizioni di leadership nel mondo scientifico tendono a non mettere sullo stesso piano i dataset aperti e le pubblicazioni prodotte quando si tratta di valutare un candidato, promuovere un ricercatore o nominare membri di comitati scientifici di rilievo. Se questo non cambia, avverte Nature, la “rivoluzione dei dati aperti” si fermerà presto.

L’editoriale fa l’esempio di uno studio neurologico pubblicato di recente, che ha usato come fonte oltre 100 altri studi i cui dati non sempre erano aperti. Mentre alcuni degli scienziati i cui studi erano basati su dati “proprietari” (cioè coperti da una qualche forma di limite all’accesso) sono diventati coautori del nuovo studio, i ricercatori i cui dati erano accessibili fin dall’inizio sono stati solo accreditati nelle citazioni e nei riconoscimenti dell’articolo, come da convenzione.

A quanto pare, spiega Nature, non si tratta di una novità, né di un caso isolato. Gli autori di dataset condivisi rischiano spesso essere accreditati in modi che non hanno alcun peso per il loro percorso professionale, mentre quelli che arrivano a essere nominati come autori hanno maggiori probabilità di ottenerne un tornaconto in termini di carriera.

Questa situazione continuerà a protrarsi finché la firma di un articolo continuerà a essere il mezzo principale di riconoscimento del lavoro scientifico. Se invece i dati aperti fossero formalmente considerati allo stesso modo degli articoli di ricerca nei processi di valutazione, assunzione e promozione, i gruppi di ricerca avrebbero un incentivo in più ad aprire i propri dataset.

È tempo quindi, esorta l’editoriale, che università, gruppi di ricerca, finanziatori ed editori inizino a considerare modi per dare un riconoscimento ai dati aperti nei loro sistemi di valutazione.

Ci saranno sempre casi in cui i ricercatori non possono avere accesso ai dati. I dati dei neonati, per esempio, sono molto sensibili e devono superare severi test di privacy. Inoltre, rendere accessibili i dataset richiede tempo e finanziamenti che i ricercatori non sempre hanno. I ricercatori dei paesi a basso e medio reddito temono che i loro dati possano essere usati da ricercatori o aziende in paesi ad alto reddito in modi non consentiti.

Ma dare credito a tutti coloro che contribuiscono con le loro conoscenze al risultato di una ricerca è un caposaldo della scienza. La convenzione per cui coloro che rendono i loro dati aperti si accontentano di una citazione richiede un ripensamento, conclude Nature: «Finché l’autorialità di un articolo è molto più apprezzata della generazione dei dati, questo disincentiverà l’apertura dei dataset. Prima si cambia, meglio è».

(Foto di FLY:D su Unsplash)

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