«Si tratta di una “sostituzione” non legata ai processi di ricambio generazionale o alla ritrosia dei lavoratori nostrani verso i lavori a più basso prestigio sociale. Sempre più si insinua il dubbio che gli immigrati si giovino di una sorta di “vantaggio competitivo” -perché si adattano e costano meno- in un mercato del lavoro che registra l’accentuarsi dei suoi tradizionali aspetti di debolezza».
Questa considerazione di Laura Zanfrini, dell’università Cattolica e Fondazione Ismu, è stata espressa a margine di una ricerca effettuata dalla Fondazione “Leone Moressa” per conto del Sole 24 Ore (l’intero documento si può scaricare qui), dal titolo “L’occupazione straniera: esiste un effetto sostituzione?”. Ciò che emerge dai dati raccolti è che in alcuni settori, nel periodo considerato (2007-2010) c’è stata una “over sostituzione”, ossia per un italiano uscito dal mercato del lavoro, è entrato più di uno straniero. È andata così per cuochi, camerieri e baristi; saldatori, montatori, lattonieri; addetti non qualificati nell’industria. Circa 30mila nostri connazionali rimpiazzati da circa il doppio degli stranieri.
Sostituzione “perfetta” (23mila italiani usciti usciti, 22.700 stranieri entrati) nel commercio ambulante e tra pittori, laccatori e parquettisti. L’ingresso di immigrati (+142mila) non è riuscito invece a compensare gli abbandoni degli italiani (-330mila) tra magazzinieri, manovali, cassieri e braccianti agricoli. Questo per citare solo alcune delle 25 categorie prese in esame dallo studio. Nel complesso, la presenza straniera di lavoratori è passata dal milione e mezzo di risorse del 2007 ai poco più due milioni del 2010, con un peso sull’occupazione passato dal 6,5 al 9,1 per cento. Il mercato che ha visto l’occupazione italiana scendere del 4,3 per cento e salire quella straniera del 38,5 per cento.
In parte, dato che il ricambio si è manifestato soprattutto nelle occupazioni a più bassa specializzazione, vale ciò che dice Emilio Reyneri, docente di sociologia all’Università Bicocca di Milano: «I giovani italiani sono sempre di meno e cresce il loro livello di istruzione: è normale che seguano una strategia di ricerca selettiva del posto di lavoro, con aspettative elevate, scontrandosi però con un mercato dove le poche opportunità d’impiego create in questi anni riguardano posizioni scarsamente qualificate». Questo, ovviamente, vale per chi può permettersi di applicare tali “strategie”.
La ricerca di lavoro è un’attività che richiede tempo e applicazione, bisogna potersela permettere, soprattutto se vuole essere molto selettiva. Ed è qui che torna in maniera prepotente l’osservazione della Zanfrini. In un mercato del lavoro in cui ci sono sempre meno garanzie, vince chi è disposto ad accettare le condizioni peggiori. Non vogliamo qui emettere giudizi sui lavoratori, o sugli aspiranti tali. Già troppo inchiostro è stato sprecato per condannare i “mammoni” ed esaltare chi è pronto a tutto pur di lavorare, o peggio ancora per descriverla come una partita a guardia e ladri in cui qualcuno ruba il lavoro a qualcun altro.
Questa è speculazione filosofica da bar, noi cerchiamo più umilmente di stare coi piedi per terra. E la conclusione è che si è innescata la guerra tra poveri. Perché se vince chi si vende all’offerta più bassa, vuol dire che hanno perso tutti. Hanno perso i datori di lavoro, perché calpestano la dignità delle persone. Hanno perso i lavoratori, perché rinunciano ai propri diritti pur di lavorare (leggi: farsi sfruttare). Ha perso lo Stato, perché non ha capito come rilanciare l’economia e al contempo garantire che sia rispettato il primo articolo della Costituzione (non stiamo a riportarlo, ché a furia di citarlo negli ultimi anni sembra aver perso forza). E ha perso il lavoro, svilito del suo valore e di ogni sua funzione: quella di realizzazione personale per chi la vede in maniera “liberal”; di collante e strumento fondativo di una comunità per chi guarda più a sinistra. In ogni caso, non una rincorsa alle briciole.