Giovedì 20 agosto, alla Convention del Partito Democratico statunitense, è intervenuto un ragazzino di 13 anni, Brayden Harrington, con un disturbo di balbuzie. Il motivo per cui era lì è che il candidato presidente scelto da quel partito, Joe Biden, convive da sempre con lo stesso disturbo, che non gli ha impedito di avere una carriera politica ricca di soddisfazioni. «Sono un ragazzino normale», ha detto Harrington, che ha poi raccontato che un recente incontro con il candidato democratico gli ha dato «fiducia su una cosa che mi ha messo in difficoltà per tutta la vita». Questo dimostra due cose. La prima è che la politica è ancora in grado di dare messaggi positivi e innescare relazioni di empatia tra le persone. Purtroppo è un fatto sempre più raro, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Al di là di orientamenti e convinzioni personali, è un aspetto da tenere presente oggi più che mai, in un periodo in cui la politica è impegnata a dividere ed estremizzare, piuttosto che a stabilire relazioni sane ed empatiche. La seconda, su cui ci concentreremo maggiormente in questo post, è che la balbuzie è un disturbo che non deve diventare un limite, ma che invece si può imparare a gestire.
Cosa sappiamo sulla balbuzie
Secondo quanto riporta il New York Times, circa un ragazzino su 20 mostra qualche sintomo di balbuzie, che si manifesta tra i 2 e i 7 anni. In età adulta, il disturbo viene superato nel 70-90 per cento dei casi. L’1 per cento della popolazione convive invece con il disturbo per la maggior parte della vita. Per ragioni ancora non ben comprese, i maschi hanno il doppio delle probabilità di avere la balbuzie rispetto alle femmine, e circa il quadruplo di trascinarsi il problema anche in età adulta. A innescare la balbuzie è spesso una forma di ansia che produce una serie di inciampi verbali i quali, a loro volta, portano a una forma di stress consapevole. La genetica ha un qualche ruolo nello sviluppo della balbuzie, e infatti circa la metà di chi balbetta è imparentato con qualcuno che fa altrettanto. Non è però possibile prevedere, “leggendo” il patrimonio genetico di un soggetto, l’insorgere del disturbo. Dagli studi fatti con tecniche di imaging cerebrale si è potuto vedere che i soggetti con balbuzie, mentre leggono, hanno una maggiore attività nelle aree del cervello riservate al movimento rispetto a lettori che non hanno lo stesso disturbo, e inoltre hanno una maggiore difficoltà nell’ascolto della propria voce. C’è inoltre una maggiore circolazione di dopamina, mediatore chimico coinvolto nella coordinazione del controllo motorio.
Come si cura
Le terapie farmacologiche si appoggiano principalmente su ansiolitici e antidepressivi, ma non danno particolari benefici. Al contrario, approcci comportamentali sono considerati più efficaci. Per i bambini, una terapia di risposta contingente sembra avere molti più effetti dei farmaci. Prevede che al bambino sia dato un feedback immediato su ciò che sta dicendo: positivo, se tutto va bene (“molto bene, nessun inciampo!”), incrementando gradualmente la lunghezza delle frasi; negativo (ma con delicatezza) quando emerge una balbuzie (“Ops, riproviamo”). Per gli adulti, gli approcci migliori sembrano essere la gestione dell’ansia che circonda l’atto del parlare, o la cadenza del discorso, o idealmente entrambi. Il primo è sostanzialmente lo stesso usato per trattare l’ansia sociale: un corso di terapia comportamentale in cui le persone imparano a conoscere e disinnescare convinzioni inconsce sulle interazioni sociali (“Faccio sempre confusione nelle conversazioni”, “Non sono una persona sociale”, ecc.). Il secondo si focalizza sul parlare lentamente, usando intenzionalmente cambi di cadenza per ridurre il numero di inciampi.
(Foto di Bogomil Mihaylov su Unsplash)