Al di sotto della descrizione scientifica del mondo c’è uno spazio insondabile che la rende possibile, «proprio come il punto cieco che si trova al centro del nostro campo visivo ci permette di vedere», si legge nel libro Il punto cieco. Ne scrive Doppiozero.

Molti credono che la scienza sia un metodo per espandere la nostra conoscenza, ma pochi comprendono che al suo centro sta in agguato un invisibile punto cieco che non può essere oggetto dell’indagine empirica. Quel punto siamo noi, gli osservatori della realtà e gli autori delle teorie che descrivono il mondo. Pensiamoci un attimo: il mondo è fatto di tante cose – oggetti, artefatti, corpi, nuvole, animali, piante – eppure ne manca una, la più fondamentale: noi stessi. Certo, vediamo i nostri corpi e quello che fanno e dicono. Possiamo riflettere il nostro viso in uno specchio, riascoltare la nostra voce, toccare la nostra pelle. Ma tutto questo è davvero ciò che siamo? Nessuno ha mai visto un io. L’occhio che guarda non potrà mai vedersi.

Questo spazio insondabile che si apre al di sotto della descrizione scientifica del mondo è il tema del libro Il punto cieco (Einaudi, 2024), scritto a sei mani, di Adam Frank, Marcelo Gleiser ed Evan Thompson. Si tratta di un testo tanto piacevole quanto profondo che va a scandagliare la relazione tra osservatore e osservato in un percorso che unisce scienza e filosofia.

Secondo gli autori, «al centro della scienza c’è qualcosa che non vediamo ma che la rende possibile, proprio come il punto cieco che si trova al centro del nostro campo visivo ci permette di vedere» e non perché, come per la materia oscura o i buchi neri, sia difficile da vedere ma che, con più tempo e più soldi, riusciremo a vedere. Piuttosto perché la scienza tutta è costruita in modo da non riuscire mai a rivolgere lo sguardo su se stessa e sul proprio protagonista.

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(Foto di Artyom Korshunov su Unsplash)

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