È uscito il nuovo rapporto sulla libertà di stampa nel mondo, realizzato da Reporter senza frontiere. L’Italia ha guadagnato numerose posizioni in classifica rispetto allo scorso anno, passando dal 77esimo al 52esimo posto. Il motivo è la conclusione del caso denominato “Vatileaks”, terminato con l’assoluzione dei due giornalisti coinvolti. Peraltro il tribunale che si è espresso è quello dello Stato Vaticano, dunque al di fuori dei confini italiani, ma tant’è. Di certo quello di Rsf è un lavoro importante: è sempre buona cosa interrogarsi sullo stato dell’informazione nel mondo e cercare di trovare dei parametri utili a confrontare Paesi e contesti molto diversi tra loro.

Negli anni abbiamo dato spazio su ZeroNegativo a questa classifica, cercando sempre di guardarla con occhio critico, al fine di capire la sua attendibilità e la pertinenza dei problemi da essa sollevati. Ci sono un paio di cose che bisogna tenere presente, prima di gridare allo scandalo e affermare che in Italia non ci sia libertà d’informazione. Innanzitutto, il fatto che a precedere l’Italia nella classifica ci siano Paesi con situazioni politiche tutt’altro che stabili, nei quali è difficile credere che possano esserci oggettive condizioni di lavoro migliori per i giornalisti locali rispetto a quelli italiani. Per esempio, al 42esimo posto compare il Burkina Faso, Paese in cui si sono svolte l’anno scorso le prime elezioni libere da 27 anni a questa parte, e in cui si sono succeduti numerosi colpi di Stato negli ultimi decenni.

L’altro aspetto da tenere presente, come evidenziavamo già l’anno scorso, è che la classifica si basa su un complicato sistema che prende in considerazione dati qualitativi e quantitativi. Nel primo gruppo rientrano le risposte a un questionario sulla libertà di stampa compilate da una rete di associazioni (di cui Rsf preferisce non fare i nomi). Sono dati che si basano sulla libertà di stampa percepita da operatori che in qualche modo hanno a che fare con l’informazione o con i giornalisti. Non è dunque previsto il contributo dei giornalisti stessi, né quello dei comuni cittadini. Chiaramente questa modalità lascia ampio spazio alla discrezionalità degli operatori, nel rispondere alle 87 domande del questionario, che si divide in vari argomenti (come spiega il Post): «pluralismo, indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza, infrastrutture e abusi. I vari punteggi vengono “pesati” diversamente con una complicata formula matematica con la quale, in base ai primi sei argomenti, si ottiene un primo punteggio, il cosiddetto “ScoA”». C’è poi un secondo punteggio (lo “ScoB”) composto sulla base di dati quantitativi (il numero di giornalisti uccisi nel Paese, quelli arrestati, minacciati e licenziati) che vengono sommati con una formula matematica allo “ScoA”. «Nello “ScoB” l’analisi quantitativa sugli abusi pesa per il 20 per cento, mentre il resto del punteggio deriva dallo “ScoA”. Nella classifica finale, RSF utilizza il dato più alto tra “ScoA” e “ScoB”».

Alla fine, ci pare di capire che la valutazione sia comunque sbilanciata a favore dei dati qualitativi, mentre manca un sistema di confronto analitico (che sarebbe molto difficile data l’eterogeneità dei contesti) tra gli assetti proprietari degli editori, i principali investitori pubblicitari, il controllo politico delle pubblicazioni, le leggi e le sentenze in tema di libertà di stampa e diritto all’informazione. «Nel rapporto appena uscito, Reporter Senza Frontiere scrive che comunque l’Italia si trova al 52esimo posto perché sei giornalisti sono ancora sotto protezione avendo ricevuto minacce di morte soprattutto da parte della mafia o di gruppi fondamentalisti e perché il livello di violenza contro i giornalisti (intimidazioni verbali, fisiche e minacce) è allarmante, soprattutto a causa di “politici che non esitano a colpire pubblicamente i giornalisti che non amano”».

Indubbiamente l’informazione in Italia non se la passa molto bene, non tanto perché ci sia un sistema di censura in vigore, ma perché (come rileva correttamente Rsf) è in atto un lavoro di delegittimazione della professione giornalistica. Inoltre vanno menzionati i problemi economici che stanno vivendo praticamente tutte le testate, a causa del drammatico calo delle copie dei giornali vendute nelle edicole, non compensato dall’elaborazione di un modello di business efficiente su internet (un problema che riguarda i giornali di tutto il mondo). La scarsità di spazi non giova certo alla motivazione dei giovani nell’intraprendere la carriera giornalistica. E anche quando questo avviene, spesso si arriva al confronto col mondo lavorativo con un’idea “vecchia” della professione, costruita sul modello delle poche migliaia di giornalisti assunti con contratto nazionale. Il problema (come denunciato da anni da Enrico Mentana) è che man mano che questi vanno in pensione, non vengono sostituiti da giovani assunti alle stesse condizioni. La salute del giornalismo dipende anche dal coraggio di reinventare la professione da parte dei giovani, dimenticando i modelli di un passato ormai sbiadito. Come sta facendo con successo, tra gli altri, Gabriele Del Grande, al quale auguriamo un buon rientro a casa dopo le due settimane di detenzione in Turchia.

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