Il codice di comportamento per le ong che effettuano salvataggi di migranti nel Mediterraneo, redatto e sottoscritto dal Ministero degli interni nei giorni scorsi, ha generato perplessità tra molti. Le ong temono che le nuove regole possano rallentare o impedire le operazioni di soccorso, mentre alcuni giuristi trovano che il codice non aggiunga nulla di sostanziale per quanto riguarda i reati commessi in mare rispetto alle leggi internazionali, o addirittura che sia in contrasto con queste ultime (e quindi non applicabile) in alcuni punti. Tra le associazioni che hanno espresso la propria contrarietà alla bozza trasmessa dal Ministero ci sono Amnesty International e Human Rights Watch. La prima ha diffuso un comunicato molto duro, che contiene una dichiarazione di Iverna McGowan, direttrice dell’Ufficio di Amnesty International presso le istituzioni europee: «Il codice di condotta proposto per le Ong che salvano vite nel Mediterraneo potrebbe mettere in pericolo altre vite. I tentativi di limitare le operazioni di ricerca e salvataggio delle Ong rischiano di mettere a repentaglio migliaia di vite umane impedendo alle imbarcazioni di salvataggio di accedere alle acque pericolose vicino alla Libia».

Più concretamente, l’attività delle ong sarebbe minacciata dal codice in vari modi: «Impedendo loro di entrare nelle acque territoriali libiche per le operazioni di salvataggio; impedendo loro l’utilizzo di segnali luminosi per indicare la propria posizione alle imbarcazioni a rischio imminente di naufragio; forzandole a tornare in porto per sbarcare rifugiati e migranti, piuttosto che consentire loro di trasferire persone salvate in altre imbarcazioni in mare, se necessario. Ciò costringerebbe le squadre di ricerca e salvataggio delle Ong a spostarsi per lunghi periodi dall’area in cui sono necessarie, lasciando più persone a rischio di annegamento nel Mediterraneo centrale. La bozza del documento include la minaccia di rifiuto di consentire alle navi delle Ong di sbarcare in Italia se non sottoscrivono il codice o non ne rispettano alcune disposizioni».

Secondo i dati di Missing Migrants, dal 1° gennaio al 26 luglio 2017 sono morte (o ufficialmente disperse) nel Mediterraneo 2.377 persone. E sarebbero state molte di più senza l’intervento delle ong. Queste ultime hanno intensificato le proprie attività di soccorso a seguito della chiusura della missione Mare Nostrum (avvenuta il 31 ottobre 2014), e oggi (secondo l’agenzia europea Frontex) contribuiscono al 40 per cento dei salvataggi in mare. Le navi istituzionali continuano dunque a svolgere la maggior parte degli interventi, ma il ruolo delle ong è diventato da marginale a determinante, nel giro di soli pochi anni.

«Le Ong sono là fuori nel Mediterraneo per salvare le persone perché l’Unione europea non lo fa – ha dichiarato Judith Sunderland, direttrice associata di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia centrale –. Data l’entità delle tragedie in mare e degli orribili abusi che migranti e richiedenti asilo subiscono in Libia, l’Unione europea dovrebbe lavorare con l’Italia per rafforzare la ricerca e il salvataggio nelle acque libere di fronte alla Libia, piuttosto che limitarla».

Dal punto di vista giuridico, il codice è stato attaccato da alcuni esperti del settore, tra cui Violeta Moreno-Lax, dell’Università Queen Mary di Londra. In un’intervista pubblicata sul sito dell’ong Sea Watch (e tradotta in italiano da Vita), la giurista ha definito il codice “senza senso” e “illegale” in molte sue parti. Partendo proprio dai profili di illegalità, Moreno-Lax parla della minaccia, contenuta nel testo, di chiudere i porti italiani alle ong che si rifiutino di sottoscrivere il codice: «Questo non solo andrebbe contro la legge del mare (che prevede il salvataggio a ogni costo di una persona in pericolo, ndr) ma anche contro la legge internazionale di non respingimento dei potenziali rifugiati e le leggi sui diritti umani. Solo le ong, tra l’altro, sarebbero obbligate a firmare questo codice, e non le navi commerciali, i pescherecci, le navi da guerra o quelle di apparati istituzionali come Frontex e Eunavfor Med: sarebbe quindi un provvedimento discriminatorio».

Un altro punto molto criticato, tra i tanti, è il divieto di comunicare tramite telefoni satellitari o di usare segnali luminosi: «Questo non può essere vietato, perché è parte degli strumenti per garantire l’obbligo di salvare vite in pericolo in mare, come è codificato tra l’altro all’articolo 9 del Regolamento 656/2014 del Parlamento europeo, dove si dice che “bisogna prendere tutte le misure appropriate” per assicurare il salvataggio. Questa stessa regola la deve seguire anche la flotta di navi di Frontex, per capirci».

In questi giorni stanno andando avanti gli incontri tra esponenti delle istituzioni e rappresentanti delle ong, per capire quali possibilità ci sono per intervenire sul testo. Di certo non è un bel segnale dal punto di vista dell’impegno al soccorso in mare da parte del nostro Paese. Se è vero che dopo la chiusura di Mare Nostrum l’Unione europea non ha supportato l’Italia con risorse adeguate, fare ricadere questo su chi per propria iniziativa salva vite umane (e quindi in definitiva su queste ultime) è una sconfitta per tutti.

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