La Coldiretti stima in 60 miliardi di euro il danno provocato all’economia italiana da parte delle numerose aziende mondiali dedite alla “agropirateria” dei prodotti nostrani. Quest’ultima prevede infatti l’utilizzo di nomi e marchi dalla sonorità (e solo quella) italiana per i prodotti alimentari realizzati e commercializzati fuori dall’Italia, sfruttando a fini commerciali l’irresistibile forza di attrazione di parole come Parmigiano, prosecco, salame, ecc. alle orecchie di consumatori di tutto il mondo. Peccato che dietro quei nomi (presentati con piccole variazioni, giusto per mettersi al riparo da cause legali e forse da un confronto diretto con l’originale) si nascondano prodotti che nulla hanno a che fare con la provenienza, la composizione e il sapore dei corrispettivi nostrani.

«C’è in atto un salto di qualità dell’agropirateria internazionale – denuncia la Coldiretti – che è arrivata a colpire i prodotti più rappresentativi dell’identità alimentare nazionale con danni economici e di immagine non più sostenibili per l’agricoltura italiana. La denominazione Parmigiano Reggiano resta le più copiata nel mondo con il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone, ma in vendita c’è anche il Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America, ma anche Pamesello in Belgio. Ma ora – continua la Coldiretti – c’è addirittura la possibilità di acquistare (in Gran Bretagna, negli Usa o in Australia) un kit per fare il pregiato formaggio italiano, ovviamente senza dare alcuna importanza al latte utilizzato. Una vera e propria truffa che colpisce anche i vini italiani più prestigiosi come il Valpolicella che può essere taroccato con un miracoloso kit che promette di ottenerlo in pochi giorni con miscugli di polveri e mosto».

Siamo ormai lontani quindi dalla pasta alla Alfredo che si può trovare ovunque tranne che in Italia o dalla pasta alla Caruso, piatto uruguayano (e che in Uruguay si pensa essere tipicamente italiano) che difficilmente riuscirete a ottenere in un qualsiasi ristorante partenopeo (per la cronaca, si tratta di un primo a base di prosciutto, funghi e panna). Quella è la parte “folcloristica” e ci sta tutta, ma stavolta si parla di un vero e proprio danno economico quantificabile, dato dallo sfruttamento delle note qualità del cibo italiano, utilizzate per vendere di tutto. È un argomento su cui si può e si deve intervenire in sede europea ma anche al Wto (l’organizzazione mondiale per il commercio), introducendo l’obbligo di indicare la provenienza di tutti i prodotti alimentari in commercio, in modo da non far passare nei consumatori stranieri l’idea di stare consumando prodotti italiani, con ovvio danno all’immagine della nostra economia gastronomica. Certo c’è poco da sperare in un’azione rapida da parte del Wto, visto che dalla sua fondazione (nel 1995) a oggi è riuscito una sola volta a trovare un accordo: è successo alla fine del 2013 e il tema era una riforma del commercio mondiale. Non c’è da perdere tempo prima che la Soppressata salami canadese, i Maccaroni mit tomatensauce tedeschi e la Palenta croata abbiano la meglio sugli originali (probabilmente ben più gustosi) prodotti in Italia.