Gli scienziati del Centro Comune di Ricerca della Commissione europea si sono interrogati sul rapporto tra scienza e politica, e in particolare sul rapporto che la prima può dare per capire e informare (nel senso proprio di dare forma) la seconda. Il frutto di tale riflessione è confluito in un documento, dal titolo Understanding our political nature: How to put knowledge and reason at the heart of political decision-making (Capire la nostra natura politica: come mettere conoscenza e ragione al cuore delle decisioni politiche). In un contesto in cui la polarizzazione del dibattito e il livello di scontro politico sono arrivati a livelli impensabili anche solo un decennio fa, la sfida risulta appare in tutta la sua difficoltà. Luca Carra, direttore di ScienzaInRete, ha pubblicato una sintesi del volume, con alcune sue riflessioni in proposito. Vediamo di seguito i passaggi più significativi dell’articolo.
Processi di decisione collettiva
«La deliberazione pubblica migliora in ragione della sua natura collettiva. […] Esistono studi che mostrano come lavorare in gruppo aumenti la correttezza formale dei ragionamenti (dal 10-20 per cento dal tasso di successo di un singolo individuo al 70-80 per cento di un gruppo) e diminuisca la probabilità di soggiacere a bias importanti. L’intelligenza collettiva, se ben condotta, è autocatalitica. Il che impone però una serie di regole per evitare fenomeni come la “polarizzazione di gruppo” o la tendenza al conformismo (groupthink). Due sono – secondo la revisione – gli ingredienti che aumentano il tasso di successo delle deliberazioni collettive: la capacità di mettersi nei panni degli altri quando si ragiona (teoria della mente) e l’assicurare al gruppo una buona eterogeneità. Considerare il processo deliberativo politico come un’attività collettiva e non individuale è un primo passo importante, che richiede tuttavia l’applicazione di metodi, capacità e formazioni specifiche. Aiutano a questo fine anche semplici condizioni come la parità di genere nel gruppo; l’autoriflessività e l’autogestione (self-leadership) del gruppo; la garanzia di lasciare spazio a diversi stili cognitivi; la presenza di regole che assicurino il bilanciamento della partecipazione di tutti i componenti del gruppo; il reclutamento precoce dei partecipanti e una adeguata documentazione fornita in tempi utili per poterla assimilare prima del dibattito vero e proprio. Una leadership partecipativa porta a decisioni migliori a patto che venga garantito anche uno “spazio di sicurezza psicologica” in cui condividere informazioni e accogliere opinioni dissonanti rispetto al gruppo. Se l’obiettivo delle discussioni resta quello di raggiungere un consenso, è comunque molto utile esplicitare da subito i dissensi e avvalersi di modi di discussione creativa che si basano su tecniche consolidate come il pensare per scenari (“what if thinking”), ma anche attraverso approcci che mettono alla prova le conclusioni raggiunte (la tecnica dell’“avvocato del diavolo” o del “red teaming”)».
Riconoscere le emozioni
«Altra cosa da sapere è che non si sbaglia perché si è preda delle emozioni, come insegnava il buon vecchio Cartesio, ma perché non si riconosce la componente emotiva della razionalità. Detto da scienziati non è male come affermazione, che alla luce delle neuroscienze possono oggi affermare con una certa sicurezza che “le emozioni sono più razionali di quanto si sia portati a credere”. Ma per venire al pratico va riconosciuto che esistono emozioni positive che consolidano empatia e collaborazione, ed emozioni negative che minano la tenuta del gruppo, o lo tengono in vita con il collante della rabbia e dell’ansia. E qui troviamo un’istruttiva, anche se un po’ troppo semplicistica identificazione del sentimento della rabbia con posizioni politiche dichiaratamente partigiane (partisan citizenship), e della condizione dell’ansia con posizioni più conservatrici. Leggi populismo, sindrome da attacco terroristico, rifiuto dei migranti. […] Cosa può significare per la politica il riconoscimento di questa condizione è difficile dirlo, se non al momento attrezzarsi con strumenti un po’ più raffinati di quelli attuali per misurare la temperatura di queste emozioni, avere magari una sorta di CDC delle emozioni capace di mappare sui diversi media il diffondersi di questi sentimenti collettivi. E allora, accanto a questa intelligence dell’animo collettivo, perché non immaginare nella formazione dei politici un po’ di “alfabetizzazione emozionale” (emotional literacy) e la capacità di far leva sulle emozioni sociali rispetto a quelle distruttive (rabbia, invidia sociale, frustrazione)».
Una società aperta o chiusa?
«Altri elementi di riflessione vengono portati dal sondaggio effettuato nel 2019 dalla Open Society Foundation, condotta in sei paesi europei (Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia e Polonia). La ricerca ha chiesto alla popolazione di scegliere fra 14 valori (7 tipici delle società chiuse e 7 delle società aperte) quelli essenziali per una “buona società”. I risultati mostrano come mentre alcuni hanno dato la priorità ai valori appartenenti all’uno o all’altro tipo di società, la maggioranza dei rispondenti ha scelto un misto dei due insiemi, non trovando evidentemente contraddizione fra i due tipi di società. Il che potrebbe significare che molti intervistati non hanno capito le domande, oppure che accordano la loro preferenza a società chiuse per certi aspetti e società aperte per altri. Un messaggio non banale per i politici».
Scienza e democrazia
«Se la scienza deve essere un linguaggio fondamentale di una società aperta non può a sua volta rivendicare una sua autonomia, rinserrarsi nella sua comunità di riferimento – suggeriscono gli autori. Deve essere aperta allo scrutinio pubblico, sapere diffuso e nei limiti del possibile anche pratica condivisa con i non esperti. La scienza deve abbassare la guardia rispetto alle diverse costellazioni di valori in campo. E accettare di non poter dettare, ma al massimo contribuire, all’agenda della politica. “La natura intensamente politica della selezione e dell’inquadramento (framing) dei problemi politici, spesso non viene pienamente apprezzata, soprattutto dagli scienziati”, scrivono gli autori di “Understanding our political nature”. Eppure – continuano gli autori – va accettato il fatto che sia la politica a determinare che tipo di ricerca serva in un dato contesto, quali prove contino, e quali debbano essere ignorate. “Nel nuovo ambiente dell’informazione caratterizzato da disinformazione, pubblicità politica mirata o fake news, il ruolo delle prove e della competenza scientifica deve essere sostenuto su basi sia politiche sia scientifiche” concludono gli autori. “Il principio di informare la politica attraverso le prove potrebbe essere riconosciuto come un elemento chiave della democrazia e dello stato di diritto. Analogamente, sarebbe giustificato concepire le istituzioni scientifiche indipendenti come parte dei “pesi e contrappesi” della democrazia”».
(Foto di Alexandru Goman su Unsplash)