Circa un mese fa concludevamo un excursus, sviluppato nel corso di vari post, sul concetto di rappresentatività. Nell’ultimo episodio indicavamo come antidoto alle dinamiche che inquinano il buon funzionamento di un’organizzazione la collegialità. L’idea che l’assegnazione dei ruoli di rappresentanza costituisca una questione secondaria rispetto all’individuazione di un programma su cui lavorare in maniera corale è ciò che può salvare dalla contrapposizione costruita sui nomi, le facce, le simpatie e antipatie, i fedelissimi e i traditori, ecc. Oggi vogliamo approfondire e sviluppare questo tema, introducendo alcuni concetti che allora non abbiamo potuto elaborare compiutamente. Innanzitutto, bisogna chiarire che alla base della collegialità ci sono il rispetto e la fiducia. Finito il tempo della scrittura del programma, individuate le priorità da portare avanti e il nome di chi sarà chiamato a farsi rappresentante e garante di tali istanze, è importante capire l’importanza di lavorare assieme.

Il fatto che comunque, alla fine di un percorso, si debbano individuare dei nomi, votare un leader, mettersi d’accordo su chi ricoprirà la carica di rappresentanza, rischia molto spesso di essere un passaggio che apre una crisi, con gruppi che reagiscono in modo diverso. Da una parte si trova chi genuinamente e in maniera convinta e consapevole ha accettato il cambio di paradigma, che antepone il programma ai nomi dei candidati, e dunque è relativamente poco interessato a questi ultimi: basta che si remi tutti dalla stessa parte. Dall’altra ci sono quelli che il nuovo paradigma l’hanno accettato con riserva (seppure non esplicitandolo), e si trovano divisi e disorientati. Sono disposti in parte a partecipare a un modo nuovo di costruire il futuro di un’organizzazione, ma al contempo le vecchie dinamiche “politiche” non li hanno del tutto abbandonati, e dunque si fa largo in loro la tentazione di sfilarsi dai giochi e tornare a un’opposizione reazionaria. C’è poi un terzo gruppo, composto da quelli che non hanno nemmeno fatto finta di voler accettare o almeno capire il valore della collegialità, e quindi non appena si accorgono che le loro strategie non funzionano più abbandonano il tavolo, e tornano a cercare di seminare zizzania nell’ombra, ormai neutralizzati da un sistema che si è evoluto e sul quale essi non hanno più possibilità di incidere.

In questo momento, ci interessa indagare i dubbi e le perplessità del secondo gruppo, quello che mostra di avere due facce. La prima è valida fino al momento della sottoscrizione del programma, che sembra mettere d’accordo tutti verso obiettivi di lavoro comuni. Poi però arrivano i nomi a scompaginare tutto. E se la maggioranza converge, com’è normale, verso chi si presenta come più adeguato all’incarico, sorgono i primi sospetti. Perché il nome nuovo non incarna la vecchia politica, non lo si riesce a collocare con questa o quella micro-corrente di riferimento. Sfugge alle consuete categorizzazioni, proprio perché si presenta come colui che può portare l’istituzione in questione oltre certe derive personalistiche. E quindi ha troppa personalità, è imprevedibile, non parla un certo gergo condiviso. Ma in realtà sono tutte caratteristiche necessarie, se non si vuole ricadere nel passato. E se non lo si vuole accettare, allora cadono le due condizioni fondamentali di cui parlavamo all’inizio del post: il rispetto e la fiducia. Il rispetto per l’istituzione, per le persone, per il percorso che ha portato all’individuazione di un programma e di un rappresentante, e di un nuovo modo di stare assieme. La fiducia, va da sé, è quella necessaria per affrontare uniti gli impegni futuri. Uniti, ma non necessariamente sempre d’accordo su tutto. Il confronto non finisce con la sottoscrizione del programma e l’elezione del rappresentante. Continua ogni giorno, nella convinzione che più teste ragionano meglio di una sola.

Il dissenso interno è una risorsa da cui attingere per migliorare le politiche dell’organizzazione, non un problema che va risolto mettendo a tacere chi la pensa diversamente. La presenza di una minoranza in disaccordo è un elemento di forza, che può e deve avere un ruolo propulsivo nel dirimere alcune questioni, ricomponendo uno spirito di comunità, quello sì, unitario. In estrema sintesi: confrontarsi è fondamentale, ma solo se si è tutti convinti del fatto che la priorità sia lavorare assieme per obiettivi comuni. Come raggiungerli può essere oggetto di dibattito interno, di correzioni della linea impostata inizialmente, alla luce di novità e successive valutazioni. Dividersi però no, non è accettabile, se non si vuole perdere in un colpo solo tutta la credibilità accumulata lungo il percorso. Col rischio, alla lunga, di farne perdere anche all’organizzazione in cui si opera. Ma un’istituzione ha sempre i suoi anticorpi, e alla lunga sopravvive e si rigenera, nonostante le resistenze della “vecchia guardia”.

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