Invasione, evasione. La parola crea il mondo. Chiamare clandestini i migranti li rende un problema. Chiamare reato la clandestinità li rende delinquenti. Così, chi è pervaso dalla paura, può dire e scrivere che dobbiamo fermare l’invasione di delinquenti. È ciò che accade. Uomini, donne, adulti, bambini, persone di ogni età, sospinti dalla corrente su barconi pronti a diventare relitti, approdano sulle nostre coste. Questo succede. Ma se vuoi vederci altro, il lessico ti viene incontro. Quali uomini, quali donne: si tratta di clandestini. Quale viaggio, quale speranza: arrivano per delinquere. Quale accoglienza, quale asilo: bisogna rinchiudere, respingere, rimpatriare.
Tutti, in automatico, senza pensare alla forza della parola, scrivono di ondate migratorie. Appunto, come si fa a respingere un’onda? La si può arginare, convogliare, rendere innocua, non respingere. L’Europa, accettando di allargare il suo spazio di libera circolazione ai Paesi dell’Est, come la Romania e l’Albania, ha fatto un grande passo verso la rimozione della paura. Quelli che erano costretti a viaggiare dentro doppie pareti nei rimorchi dei camion, nascosti nel bagagliaio di un’auto, o su motoscafi in partenza dall’altra sponda dell’adriatico, possono venire in Italia in treno, in aereo, entrare e uscire quando vogliono. Eppure l’invasione non c’è stata. Si parlava di albanesi e di rumeni come del demonio, della minaccia all’equilibrio sociale. Ora che possono muoversi liberamente, la tensione non è aumentata, anzi si è allentata. Perché quindi non aprire le frontiere anche verso Sud?
La paura dei respingimenti non farà diminuire gli arrivi, farà solo aumentare le vittime. Chi non ce la fa la prima volta, ci riproverà una seconda, poi una terza, e così via. Per limitarci a quei “fortunati” che sopravvivono, di tentativo in tentativo. Quelli che sopravvivono al viaggio, alla detenzione nei centri italiani, alla detenzione nei Paesi di partenza, e ai successivi viaggi e approdi. Arrivano sulle nostre coste perché esse sono il pezzo di terra con scritto “Europa” più vicino a quello da cui partono. Spesso il loro intento è di passare per l’Italia, per poi andare oltre, più a Nord, dove magari altri familiari li aspettano. Chiedono il visto alle nostre autorità, questo gli viene negato, e allora si mettono in mano agli “scafisti”. Sembrano questi ultimi i veri criminali della questione, ma sono solo l’ultimo anello della catena di meschinità che trasforma il viaggio in clandestinità.
Dobbiamo finirla di vedere l’immigrazione come un’invasione, perché è prima di tutto un’evasione. Le tensioni del continente africano e del vicino Oriente sono troppo grandi per poterle arginare con una legge anti immigrazione. Sono tensioni su cui l’Europa ha delle responsabilità che affondano nel suo passato coloniale. Anche chi si attacca ai numeri, sa bene che sta ingigantendo un problema che sarebbe gestibile in maniera civile, se affrontato con lucidità e senza giocare sulla paura della gente. Nel 2013 sono sbarcate sulle nostre coste circa 15mila persone, più della metà delle quali dirette in altri Paesi. Prima di tutto bisogna aprire i confini della nostra visione della questione, per renderci conto che la guerra in Siria, per fare un esempio, ha mosso circa sei milioni di persone, tra sfollati e rifugiati interni. Di questi, in Italia ne sono arrivati circa 5mila, una percentuale ridottissima. È possibile, per un Paese che si dice civile e moderno, non essere in grado di gestire un flusso così ridotto di persone? Rendere l’immigrazione un reato, rinchiudere persone in una gabbia -da cui la stampa e le associazioni sono escluse- per 18 mesi mentre si cerca di capire come espellerle, è la soluzione?