Il 15 giugno 2020 entrava in funzione in Italia la app per il tracciamento dei contatti Immuni, sviluppata gratuitamente da un’azienda privata per conto del governo italiano. Nello stesso periodo molti altri paesi europei stavano portando avanti progetti simili per tenere sotto controllo il diffondersi del SARS-CoV-2, dopo un lungo dibattito intorno all’utilità di queste app, e soprattutto ai rischi per la privacy dei cittadini nella condivisione di dati sensibili come quelli sanitari.

Da quest’ultimo punto di vista, si può dire che in fondo le cose sono andate bene. L’accesa discussione a livello europeo tra addetti ai lavori, politici e attivisti per la tutela dei dati personali delle persone ha portato alla creazione di un protocollo, a cui tutti i paesi si sono adeguati, che faceva in modo che i dati sanitari non fossero trasferiti su server centrali, ma che rimanessero sui telefoni degli utenti in forma criptata.

Ciò non è bastato a fare di queste app un progetto di successo, per diversi motivi. Spesso i governi non si sono impegnati abbastanza per promuoverle informare i cittadini sulla loro potenziale utilità, rassicurarli sulla tutela della loro privacy.

C’è poi il tema di quanto le app, per quanto sviluppate secondo principi condivisi, siano effettivamente utili al tracciamento dei contatti. La risposta a questa domanda si potrebbe avere solo in un contesto in cui gran parte della popolazione le avesse scaricate e utilizzate, e purtroppo non è andata così quasi da nessuna parte.

Come rivela infatti un’inchiesta condotta da El Orden Mundial per lo European Data Journalism Network, le app di tracciamento dei contatti in Europa sono costate complessivamente poco meno di 106 milioni di euro (esclusi i costi di pubblicità), e hanno contribuito a isolare solo il 5 per cento dei contagi. «Queste cifre provengono da numerose fonti consultate da El Orden Mundial per questo rapporto, anche se non è stato possibile ottenere dati economici per le app di Cipro, della Repubblica Ceca – eRouška non è più in funzione – e di Malta. Allo stesso modo, le app in Italia e Lettonia sono state sviluppate gratuitamente da società di software e poi consegnate allo stato, anche se non è noto quanto Roma e Riga abbiano investito nella manutenzione delle app. Questo non è il caso di Estonia, Danimarca e Croazia, che hanno anche ricevuto aiuto dal settore privato ma hanno stanziato dei fondi per la manutenzione e la pubblicità delle loro app».

Come si può vedere dal grafico, la Germania è di gran lunga il paese che ha investito di più nella sua Corona-Warn-App, ma il discorso cambia se si guarda all’efficacia dell’investimento, calcolato dividendo la cifra totale per il numero di casi notificati grazie all’app. In questo caso svetta la Croazia, con i suoi 1.682 euro per caso notificato. Per Austria, Finlandia e Polonia il costo è andato ampiamente sopra i 100 euro per caso notificato.

«Ci sono state alcune storie di successo – spiega l’articolo –, soprattutto nel nord del continente: la Danimarca è stata in grado di allertare i contatti stretti del 26% dei casi, la Finlandia ha notificato il 16%, la Germania il 14% e i Paesi Bassi il 10%. Possono sembrare piccole percentuali, ma che hanno permesso di prevenire migliaia di nuovi casi. Il problema è che mancano ancora studi che ci diano un’indicazione reale dell’impatto di questa tecnologia sull’andamento della pandemia».

La conclusione però è che probabilmente la diffidenza dei cittadini ha giocato un ruolo fondamentale: «Nonostante gli sforzi europei per garantire un uso decentralizzato e anonimo dei dati – prosegue l’articolo –, i cittadini non hanno riposto fiducia nei loro governi e molti vedono questi strumenti come un mezzo di sorveglianza e controllo.

Bisogna anche tener conto del contesto in cui queste app sono nate: di tensione, di mancanza di risorse – dai materiali sanitari alle professioni sanitarie – e di improvvisazione, e di un momento in cui le autorità spesso non potevano dedicare tutta l’attenzione a una questione per volta e, quindi, non potevano affrontarla adeguatamente. Infatti, l’integrazione delle app con i servizi sanitari nazionali è stato un problema comune all’interno dell’Unione europea, e in molte occasioni gli utenti infetti non hanno nemmeno ricevuto il codice che dovevano usare per avvertire i contatti stretti.

La somma di tutti questi fattori ha impedito che i download aumentassero e che, come per i vaccini, il rifiuto iniziale si affievolisse gradualmente fino a convincere la maggioranza della popolazione.

Paradossalmente, proprio all’apice della digitalizzazione, quando la vita quotidiana si è spostata online, l’Ue non è stata in grado di capitalizzare questo nuovo uso della tecnologia per ridurre e prevenire la trasmissione».

(Foto di Markus Winkler su Unsplash)

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