Quando i primi esseri umani furono mandati nello spazio, nessuno aveva idea di come avrebbe reagito il corpo umano al cibo una volta in orbita. Sarebbe stato possibile deglutire fluttuando nella cabina? La digestione avrebbe funzionato anche in assenza di gravità? Nel 1961, si legge su JSTOR Daily, il cosmonauta russo Yuri Gagarin placò questa paura ingoiando e digerendo con successo una pasta fatta di manzo e fegato. Lo stesso anno, il cosmonauta Gherman Titov mangiò dei cracker mentre era in orbita intorno alla Terra. Pochi mesi dopo, l’astronauta americano John Glenn ingerì 80 calorie di salsa di mele da un tubo di alluminio. Senza dubbio Gagarin, Glenn e Titov proverebbero invidia a guardare le diete degli astronauti che oggi vivono sulla Stazione spaziale internazionale. Questi ultimi, recentemente, hanno potuto mangiare tacos per cena, usando peperoncini freschi coltivati in orbita.

Il pasto ideale nello spazio è nutriente e compatto. Il corpo umano ha bisogno molte calorie per sopravvivere senza gravità: almeno 2.500 al giorno. «Fin dall’inizio, l’obiettivo del regime alimentare su un veicolo spaziale è stato fornire cibo sicuro e nutriente, che fosse anche leggero e compatto», ha scritto lo studioso Paul Rambaut in un articolo del 1986. I primi cibi spaziali erano facili da ingerire, semplici da preparare e avevano una lunga durata di conservazione.

La difficoltà, naturalmente, era garantire che questo cibo sicuro e nutriente fosse anche appetitoso. «Anche il cibo meglio conservato non serve a molto se gli astronauti si stancano di mangiarlo», ha scritto la giornalista Alexandra Witze. Sfortunatamente, il primo cibo spaziale era tutt’altro che gustoso. «Gli astronauti del programma Mercury volavano con tubi simili a dentifricio e cubetti nutrizionali compressi», scrive Witze. Questi ultimi ricoperti di grasso per ridurre le briciole e l’untuosità. Secondo Rambaut, i cubetti «erano sgradevoli e poco digeribili».

Il programma Gemini, seguito ai programmi Mercury e Apollo, ha poi introdotto cibi disidratati tra cui frutta, insalate, carne, zuppe e dolci. Essiccare i pasti aiutava a risparmiare peso durante il lancio. Dovevano essere reidratabili, ma «era un processo lento che rendeva meno accettabili questi cibi», scrive Rambaut. Sui voli del programma Apollo, i membri dell’equipaggio mangiavano panini fatti con farina irradiata (cioè sterilizzata attraverso l’esposizione alle radiazioni). L’equipaggio riceveva anche cibo termostabilizzato in confezioni di alluminio, che conteneva «una giusta quantità di umidità», secondo Rambaut. Negli anni ’70, la stazione spaziale Skylab ha introdotto cibi precotti e congelati. Tutti gli alimenti erano confezionati singolarmente in lattine di alluminio sigillate.

Tutto quell’imballaggio aveva però dei lati negativi. «L’imballaggio diventa un problema nei lunghi viaggi – scrive Witze –. La plastica, le pellicole e gli altri involucri per il cibo spaziale non sono progettati per mantenere la merce fresca più a lungo dei 18 mesi attualmente richiesti dalla NASA». Un ottimo modo per ridurre l’imballaggio è coltivare il cibo direttamente sulla nave. Gli astronauti a bordo della ISS hanno coltivato con successo lattuga, ravanelli e cavoli. L’esperimento del peperoncino ha richiesto due anni di lavoro. Un giorno, gli astronauti potrebbero avere bisogno di una fornitura ancora maggiore di cibo spaziale. Per questo motivo gli scienziati hanno studiato anche la possibilità di allevare polli, pesci, lumache.

Oggi, gli astronauti si affidano ancora per lo più a cibi confezionati e liofilizzati. Gli scienziati continuano a elaborare menu sani che siano più vari e, si spera, più appetitosi. «Probabilmente il cibo spaziale ideale sta a metà tra una dieta semplice e una di grande varietà», scrive Rambaut. «Rischiamo, se non stiamo attenti, di fornire cibo grazie al quale gli equipaggi spaziali potrebbero sopravvivere molto più a lungo di quanto vorrebbero».

(Foto della NASA su Unsplash)

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