Uno degli imperativi che ci accompagneranno per molto tempo è quello del distanziamento fisico. Che effetto ha questo sulla percezione che abbiamo del nostro corpo e di quello degli altri? Giulia Siviero, del Post, ne ha parlato con filosofi e filosofe. Riportiamo un estratto del suo articolo.

Il virus ha dato all’apocalisse un profilo domestico, ha sostenuto la scrittrice Laurie Penny qualche giorno fa: è diversa da come l’avevamo pensata, ha l’immagine di una casa e l’immagine del proprio corpo dentro quella casa. Il corpo, il proprio e quello degli altri, sono al centro di questa pandemia: corpi protetti o nascosti dietro una serie indefinita di mediazioni, corpi morti che scompaiono e che non si vedranno mai più, corpi che hanno contato di più e corpi che hanno contato ancor meno di prima. E poi: corpi lontani tra loro, visti come minaccia, vissuti nel privato e privati di qualunque contatto. Corpi su cui si è esercitato un controllo e un autocontrollo costanti, e usati come barriera nella consapevolezza della loro potenziale pericolosità.

Il virus ha modificato i nostri rituali per salutarci e camminare per la strada, così come le nostre relazioni corporee e i parametri di organizzazione del comportamento sociale. Cosa succederà dopo? Ci toccheremo di nuovo come prima o questa nuova forma che le cose hanno preso mostrerà i suoi effetti anche nel futuro? Disimpareremo a diffidare della pelle degli altri? Continueremo a guardarci come corpi prevalentemente sanitari? E ne verrà qualcosa di buono? Abbiamo cominciato a ragionare intorno a tutto questo parlandone con alcuni filosofi e filosofe e leggendo che cosa altri e altre ne hanno scritto, senza pensare di arrivare a delle risposte, ma forse a qualche domanda in più.

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(Foto di Marco Bianchetti su Unsplash)