Con l’inizio della pandemia, tra febbraio e marzo, molti laboratori italiani che si occupano di ricerca hanno orientato il proprio lavoro verso lo studio del nuovo coronavirus. In alcuni casi si è trattato di una scelta quasi obbligata: l’emergenza ha calamitato la gran parte dei finanziamenti verso il Covid-19. In altri, alla base c’era la voglia di rendersi utili nel corso di una situazione grave e senza precedenti. Lo racconta Giorgia Guglielmi in un articolo per l’edizione italiana di Nature, inaugurata da poche settimane.
«In un paese afflitto dai tagli agli investimenti nella scienza di base – scrive Guglielmi –, l’improvvisa disponibilità di finanziamenti per la ricerca sul COVID-19 ha spinto molti ricercatori a riorientare competenze, protocolli e attrezzature per cercare soluzioni alla pandemia. E mentre il governo italiano sta imponendo nuove restrizioni nel mezzo di una seconda ondata di casi da coronavirus, i ricercatori sperano che fare ricerca su questo agente patogeno permetterà in ogni caso di tenere aperti i propri laboratori». È una tendenza in continua evoluzione, e infatti uno degli scienziati sentiti dalla giornalista, Matteo Iannacone, immunologo all’Ospedale San Raffaele di Milano, spiega che «A marzo, aprile e maggio c’è stato da parte di molti ricercatori il tentativo di riconvertire gli sforzi verso SARS-CoV-2, in parte perché era l’unico modo per poter lavorare. Adesso si è molto ampliato il divario tra chi ha prodotto dei risultati e chi invece no, quindi molti sono tornati a lavorare su quello su cui lavoravano prima». Potrà sembrare cinico, ma in un contesto in cui i finanziamenti scarseggiano costantemente, la loro disponibilità orienta il destino della ricerca: «Se ci sono tanti finanziamenti attivi su coronavirus – ha detto Iannacone – i laboratori cercheranno di accaparrarseli».
Maggiore collaborazione
Pare che la pandemia di coronavirus, in mezzo a tutti i problemi che ha creato, abbia però innescato un processo di maggiore collaborazione tra i diversi team di ricerca. Lo dice a Nature Barbara Montanini, biologa molecolare all’Università di Parma. «Qualche anno fa – si legge – Montanini aveva sviluppato coi suoi collaboratori una piattaforma di screening per la ricerca di molecole che bloccano l’interazione tra due proteine. La piattaforma è poi stata utilizzata per identificare sostanze che potrebbero interferire con la crescita dei batteri, ed essere quindi impiegate come antibiotici. Ora Montanini ha unito le forze con altri ricercatori per riprogettare la piattaforma, al fine di scoprire molecole che impediscono alle proteine del coronavirus di legarsi a recettori sulle cellule umane. Se sicura ed efficace, una molecola di questo tipo si potrebbe produrre su larga scala, liofilizzare e somministrare sotto forma di spray orale».
Il vaccino frenerà la ricerca di base?
Ma perché tutta questa ricerca, se ormai il vaccino (o meglio i vaccini) contro il coronavirus sembrano in dirittura d’arrivo? Perché non tutti potranno vaccinarsi, innanzitutto, a causa di problemi al sistema immunitario (ed è anche per proteggere chi non può vaccinarsi che è importante che chi può lo faccia, ricordiamo). Ma anche perché sono tante le cose che non sappiamo di questo virus, e quindi la ricerca deve proseguire in più direzioni. Perché, per esempio, alcune persone hanno avuto un decorso della malattia più pesante di altre? «“In assenza di un modello animale, non lo potremo mai sapere,” dice Iannacone, che studia abitualmente come il sistema immunitario si è evoluto per reagire agli agenti patogeni. I topi non vengono normalmente infettati dal virus. […] I ricercatori stanno anche setacciando il sangue degli stessi individui, cercando l’anticorpo che si lega in modo più efficiente alla proteina usata dal virus per entrare nelle cellule. Terapie a base di anticorpi sono già autorizzate o in fase di studio, ma ne serviranno altre, anche in caso di un vaccino». Uno dei rischi legati all’imminente arrivo del vaccino, è che questo sottragga interesse, e quindi risorse, dalla ricerca su terapie altrettanto importanti relative al coronavirus (il discorso si può però allargare più in generale: il coronavirus stesso ha probabilmente sottratto risorse alla ricerca diretta verso altre patologie, meno urgenti ma non meno importanti). Inoltre, Iannacone osserva che la gravità del problema che stiamo affrontando è fortemente legata ai problemi struttturali dei finanziamenti alla ricerca: «Questa pandemia è così grave anche perché non è stato fatto il lavoro di ricerca di base sui coronavirus che si sarebbe dovuto fare».
(Foto di ThisisEngineering RAEng su Unsplash)
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