La disabilità ha avuto il suo momento di visibilità durante l’ultimo festival di Sanremo. Deborah Righettoni, su Valigia Blu, ha analizzato il linguaggio usato nelle interazioni tra il presentatore Amadeus e i diversi ospiti.

[…] Quest’anno il palco di Sanremo ha ospitato il campione Powerchair Football Donato Grande ed è stato un vero peccato che non sia stata spiegata in maniera adeguata la professionalità di Grande, che ha creato la prima squadra di calcio in Italia, nata nel 2018, e che sta facendo un enorme lavoro per vederla riconosciuta dalla federazione e portare questo sport in tutto il paese. Si è di nuovo scelta la strada del paternalismo e dell’infantilizzazione della persona disabile. Il sogno di Donato Grande, secondo i media, era di palleggiare con Ibrahimovic (che lo ha accontentato, facendogli una virtuale carezza sulla testa “Fai passaggi migliori di quelli della mia squadra”). Si è ritornati su un linguaggio di perenne accondiscendenza in cui il protagonista non è il disabile, ma la persona normodotata che lo accoglie.

I termini utilizzati dallo stesso Amadeus sono completamente errati. Sono anni che associazioni e attivisti disabili si battono per eliminare la frase “portatore di handicap”, per un concetto molto semplice: definisce la persona esclusivamente per la sua disabilità. Per lo stesso motivo è sconsigliata l’espressione “diversamente abile”. “I ragazzi come Donato” è tutt’altro che una frase inclusiva, per non parlare poi di “chi SOFFRE di disabilità”.  La disabilità è una condizione di vita, si soffre di reumatismi ad esempio, non certo di disabilità.

Quando Amadeus bacchetta tutti sulle barriere architettoniche ci tiene a sottolineare che è “un argomento che sta molto cuore a me e a Zlatan, che è molto sensibile”. In un mondo ideale, la questione dell’abbattimento delle barriere architettoniche dovrebbe riportare a un senso di rispetto civico collettivo, molto scarso in questo paese, e non alla singola sensibilità dell’individuo. “Ricordiamocelo quando parcheggiamo l’auto all’angolo della strada, bloccando le discese per le sedie a rotelle o occupiamo un posto giallo”. Anche qui, l’intenzione è lodevole. Tuttavia, iniziare la frase con un ricordiamocelo è come dare per scontato che si continuerà a parcheggiare le macchine senza alcuna considerazione per la persona con difficoltà. Dobbiamo, invece, condannare fermamente chi contribuisce a ulteriori barriere architettoniche con un posteggio selvaggio e sconsiderato. Essere in possesso di un parcheggio disabili non è mai fonte di privilegio c’è sempre una dose di sofferenza e fatica dietro. Ad esempio, si dimentica spesso che il tagliando viene rilasciato anche a chi ha gravi malattie o ai loro parenti. Fare richiesta per avere un posto riservato è sovente mortificante; perlomeno, per me lo è stato. Vieni messa a nudo, con domande imbarazzanti. Non solo, avere quel tagliando diventa fonte di stress per i continui soprusi delle altre macchine sullo stallo che ti appartiene e per vigili che non arrivano mai. Il discorso generale sulle barriere architettoniche, inoltre, può riguardare chiunque di noi perché l’accessibilità dipende sempre dalle caratteristiche personali della singola persona. Una scala o un gradino troppo alto può comportare difficoltà alla persona disabile, come all’anziano e al bambino. In quest’ottica, riconoscere le differenze deve basarsi sull’uguaglianza all’accessibilità per tutti, ai luoghi, all’istruzione, alla salute. Per questo motivo, l’argomento dovrebbe “stare a cuore” all’intera società.

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(Foto da Pixabay su Pexels)

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