La vicenda di Caivano (Napoli), in cui una giovane donna è morta per un incidente in scooter, probabilmente provocato dal fratello che (assieme a tutto il resto della famiglia) non approvava il suo rapporto con un ragazzo transgender, ha messo in luce ancora una volta i limiti del giornalismo italiano nel parlare di questi temi. Un articolo di Claudia Torrisi su Valigia Blu affronta la questione.

[…] Secondo alcuni quotidiani, tra cui il Corriere della Sera e il Messaggero, i due “avevano una relazione LGBT”, oppure erano una coppia di “amiche”, declassando il loro rapporto sentimentale. Di Ciro si è parlato, soprattutto in un primo momento, praticamente solo al femminile: il ragazzo è stato definito (ad esempio da Repubblica) “un’amica che si faceva chiamare Ciro” – implicando quasi un carattere passeggero del sentirsi uomo in un corpo biologicamente femminile.

Sul Tg1 (ma non solo) Ciro è stato chiamato “Cira”, il suo nome di battesimo. Stessa cosa sul Tg2, dove in un servizio si è parlato di una “storia d’amore gay finita in tragedia”, e si è fatto riferimento a Ciro utilizzando il femminile.

È una cosa che si chiama misgendering, ossia parlare di una persona trans attraverso desinenze che non corrispondono alla sua identità di genere. Dai media, specialmente in Italia, viene fatto spessissimo. “Venire chiamat* (ripetutamente) con la desinenza o l’articolo errato può indurre disforia (il profondo disagio che la persona prova per alcune parti del proprio corpo), può far sentire le persone in pericolo (le donne trans vengono uccise e picchiate perché non sembrano abbastanza donne) ed è una forma di crudeltà inutile e una mancanza di rispetto”, si legge sul sito dell’osservatorio Trans Media Watch Italia. “C’è una minoranza di giornalisti che si ostina ad usare articoli/desinenze errati e a sminuire le difficoltà di proposito, per passare il messaggio che la biologia sia l’unico dato rilevante”.

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(Foto di Sharon McCutcheon su Unsplash)