Se in tempi normali la comunicazione scientifica non è un tema particolarmente popolare, durante una pandemia diventa d’improvvisa attualità. Come facevamo notare in un precedente articolo, da quando il coronavirus è entrato nelle nostre vite si è registrato un grande incremento di pubblicazioni scientifiche in versione preprint. Con questo termine si definiscono gli articoli non ancora pronti per essere pubblicati su riviste scientifiche, perché non sono ancora passati attraverso la revisione tra pari (peer review), ossia quel processo in cui alcuni colleghi analizzano scrupolosamente ogni aspetto dello studio, dalle premesse alle conclusioni, passando per i dettagli metodologici. Si tratta di una pratica molto consolidata nel mondo scientifico, e al momento l’unica che dia una certa garanzia sull’affidabilità di ciò che viene pubblicato (con tutti i limiti di un processo che comunque può soffrire di errori e manomissioni).
Più vantaggi che rischi
Pubblicare articoli in preprint ha due conseguenze, di segno opposto. Da un lato, la loro ampia disponibilità fa sì che molti colleghi possano leggere e controllare il materiale proposto, aumentando la qualità di ciò che arriva alla pubblicazione. Dall’altro, essendo questi articoli liberamente accessibili a chiunque, aumenta il rischio che ciò che viene reso pubblico sia usato come fonte per articoli di giornale o finisca in oscure catene di messaggi su WhatsApp e simili, prima che qualcuno faccia i necessari controlli. Secondo un articolo di Marcus Banks, bibliotecario e giornalista scientifico, i vantaggi della prima conseguenza superano di gran lunga i rischi della seconda. Il 17 giugno di quest’anno, ha spiegato Banks, una ricerca sul sistema immunitario e il coronavirus, che avrebbe poi avuto implicazioni dirette nello sviluppo del vaccino contro il Covid-19, è stata postata in preprint sul sito Research Square. L’articolo è stato pubblicato su Nature Immunology, al termine della peer review, solo il 30 settembre. Grazie però alla condivisione in preprint, prima di questa data è stato scaricato più di 100 mila volte. In una fase in cui ogni giorno pesa nella corsa allo sviluppo di un vaccino, l’attesa della revisione tra pari avrebbe tenuto queste informazioni nascoste per oltre tre mesi. A voler cercare un aspetto positivo in questa pandemia, sostiene Banks, lo si può trovare proprio nel proliferare di pubblicazioni preprint in ogni ambito scientifico. Una pratica peraltro già in uso da tempo in campi come la fisica e la matematica, ma relativamente nuova nella medicina e biologia. Finora, oltre 10 mila preprint relativi al coronavirus sono stati pubblicati, contribuendo a mettere in circolazione informazioni vitali per la ricerca con una velocità molto più rapida rispetto al tradizionale sistema della peer review.
Un sistema obsoleto?
In una società altamente digitalizzata come la nostra, è lecito chiedersi se abbia senso continuare a privilegiare un sistema come la peer review, nata quando le riviste scientifiche erano stampate su carta e spedite per posta, ed era quindi fondamentale che ciò che veniva diffuso fosse il più accurato possibile. Non che quest’ultima cosa non sia più necessaria. Ma a pensarci, condividendo gli articoli su apposite piattaforme online dedicate ai preprint si permette loro di essere controllati da molti più ricercatori in molto meno tempo. È forse il momento, suggerisce Banks, di spostarsi su un processo più aperto e partecipato di controllo dei paper: non ha più senso, con la facilità e rapidità di circolazione di contenuti che abbiamo oggi, nascondere al mondo scientifico informazioni potenzialmente fondamentali in attesa che due o tre anonimi revisori compiano l’incarico. Condividendo potenzialmente con tutta la comunità scientifica prima della pubblicazione, la qualità di ciò che va in pubblicazione non potrà che aumentare. E comunque, anche prima di andare in preprint, gli articoli passano attraverso numerose riletture e controlli, quindi i sistemi di sorveglianza non mancano. Durante la pandemia sono nati appositi servizi di revisione o curatela delle pubblicazioni preprint, nonché riviste dedicate. E infine, per una volta, ci tocca parlare bene dei social network, perché questi lavori finiscono spesso nelle “bolle” dei ricercatori su Twitter, dove subiscono un ulteriore esame che spesso si rivela decisivo per trovare errori e mancanze che sfuggono anche alla peer review.
(Foto di Louis Reed su Unsplash)