di Federico Caruso

Da qualche tempo, il manuale di stile del Guardian riporta questa indicazione alla voce “climate change”: «Climate change is no longer considered to accurately reflect the seriousness of the situation; use climate emergency, crisis or breakdown instead». Ossia: «”Cambiamento climatico” non è più considerata un’espressione in grado di riflettere la serietà della situzione; si usino piuttosto “emergenza climatica”, “crisi” o “dissesto”». Il punto è che raccontare l’emergenza climatica è sempre più difficile. Se ne parla molto, ma talvolta senza centrare il punto della questione: orientare troppo il discorso verso l’allarmismo rischia di scoraggiare le persone dalle possibili azioni per arginare il fenomeno. Inoltre bisogna districarsi dalle tante fake news che girano attorno al fenomeno, che mirano a minimizzarlo o negarlo del tutto. Il risultato è che il racconto del cambiamento climatico tende a non interessare i lettori, scoraggiati dall’approfondire un tema che sembra ormai destinato verso un esito drammatico e irreversibile.

Le parole giuste

«Vogliamo essere certi di essere scientificamente precisi ha detto la direttrice del Guardian, Katharine Viner – comunicando allo stesso tempo questo importante tema in maniera chiara ai nostri lettori. L’espressione “cambiamento climatico”, per esempio, suona piuttosto passiva e delicata, mentre ciò di cui parlano gli scienziati è una catastrofe che colpisce l’umanità». Il Guardian ha poi aggiornato alcune altre parole indirettamente legate all’argomento, adottando “wildlife” invece di “biodiversity”, “fish populations” invece di “fish stocks” e “climate science denier” invece di “climate sceptic”. Scelte che parlano del tipo di messaggio che si vuole mandare al lettore. Anche in italiano fa una certa differenza parlare di “popolazioni di pesci” piuttosto che “scorte di pesce”, così come “flora e fauna” piuttosto che “biodiversità” (ma probabilmente l’inglese “wildlife” ha un’accezione ancora più concreta rispetto alla nostra traduzione). Per quanto riguarda “scettici” e “negazionisti”, la differenza appare piuttosto evidente. Se lo scetticismo è un atteggiamento legittimamente critico verso una certa teoria o sistema, il negazionismo punta in maniera più decisa al rifiuto di un fatto ampiamente dimostrato. Su quest’ultimo aspetto l’articolo il Guardian riporta anche la posizione della BBC, che nella sua copertura dell’emergenza climatica riconosce di avere sbagliato troppe volte,e indica al proprio staff di smettere di ospitare nei propri pezzi un “negazionista” per equilibrare il dibattito. L’effetto è anzi contrario: essendo i negazionisti (così come gli “antivaccinisti”) una minoranza, dare loro lo stesso spazio che si dà alla scienza significa aumentarne la visibilità in maniera ingiustificata.

Nuove forme di narrazione dell’emergenza climatica

Due scritti, nei mesi scorsi, hanno provato a usare le tecniche della narrativa per raccontare l’emergenza climatica. Uno è il lunghissimo approfondimento di Nathaniel Rich dal titolo “Losing Earth”, pubblicato sul New York Times Magazine. Il pezzo, che ha preso un intero numero della rivista, prova a ricostruire il momento storico in cui (secondo la versione di Rich) negli anni ’80 del Novecento si è avuta la possibilità di firmare un accordo che avrebbe permesso di risolvere il problema del surriscaldamento globale, e come l’iniziativa è fallita. L’altro pezzo è di David Wallace-Wells, si intitola “The Unhabitable Warth” ed è uscito sul New York Magazine. Si tratta di un racconto apocalittico ambientato in un ipotetico 2100 in cui la temperatura del pianeta è aumentata di 4 gradi centigradi. Non è un racconto in senso proprio, nel senso che non ci sono personaggi che fanno cose, ma è più un viaggio all’interno di questa distopica società che deve fare i conti con i drammi e le sofferenze di un pianeta che ha fallito nel suo intento di limitare l’innalzamento delle temperature. Secondo Meehan Crist, che ha commentato i due articoli su The New Republic, entrambi i tentativi hanno esiti molto problematici. Il primo perché rischia di diventare una sorta di “discorso sulla morale” piuttosto che una chiamata all’azione. Il secondo ha ricevuto varie critiche per delle ingenuità dal punto di vista scientifico, e per l’eccessivo allarmismo su alcuni aspetti del problema. Entrambi i pezzi, però, hanno almeno un merito: avere dimostrato quanto bisogno ci sia di immaginare nuovi modi di raccontare l’emergenza climatica.

(Foto di Jacqueline Godany su Unsplash)