Uno studio effettuato da alcuni autori dell’ufficio studi della Banca centrale europea (che dunque non rappresenta il punto di vista della Bce, ma solo quello di chi l’ha scritto) prova ad analizzare gli effetti in Italia dell’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, ispirata alla Tobin Tax. Il provvedimento si deve al governo di Mario Monti, che nel 2012 introdusse il prelievo di una percentuale del valore sulle transazioni di una certa entità realizzate sui mercati finanziari. L’obiettivo del meccanismo è disincentivare gli speculatori dal fare investimenti di brevissimo periodo per approfittare di fluttuazioni del mercato, che generano grande volatilità e possono portare alle note “bolle” che, quando scoppiano, estendono i propri danni sull’intera collettività (salvo forse proprio gli speculatori).

Ci sono state letture diverse di questo studio sui giornali italiani, e alcuni hanno sottolineato che, in sostanza, gli effetti negativi di tale tassa superano di gran lunga i benefici. Ferruccio De Bortoli, sul Corriere del 23 luglio, faceva notare che l’Italia è stata molto zelante nell’introdurre l’imposta prima di tutti gli altri Paesi europei in un clima, quello del 2012, in cui sembrava che tutta l’Unione si stesse preparando all’introduzione della Tobin Tax. Così non è stato, visto che solo Francia e Regno Unito hanno seguito l’esempio italiano, prevedendo una serie di eccezioni per fare in modo che la tassa non “interferisse” troppo con il libero scambio. Bisogna ricordare che questo sistema di prelievo sulle transazioni, nelle stesse intenzioni dell’economista premio Nobel che lo ideò (James Tobin), ha senso solo se adottato in grandi aree del pianeta. Se applicato solo in alcuni Stati, gli speculatori saranno portati a spostare i propri capitali verso le zone dove il prelievo non è applicato.

Negli articoli che criticano la Tobin Tax si mettono a confronto leggi molto diverse tra loro. Avevamo già parlato qui (https://www.avis-legnano.org/blog/tassa-sulle-transazioni-finanziarie-giudizi-affrettati/) di tutti i limiti della legge italiana, che infatti ha prodotto ricavi più bassi del previsto (450 milioni contro un miliardo previsto), proprio perché le stime iniziali del Ministero erano state fatte sulla base della proposta di legge iniziale, prima che venisse depotenziata da successive modifiche. In Inghilterra le cose sono andate diversamente, come spiega un articolo di Leonardo Becchetti e Nicola Ciampoli su Sbilanciamoci.info: «Con enorme pragmatismo gli inglesi sono riusciti da tempo ad avere “the best of the two worlds” (o si direbbe da noi la botte piena e la moglie ubriaca). Con una pesantissima tassa sulle transazioni finanziarie allontanano gli speculatori puri e i traders ad alta frequenza dalla compravendita delle azioni inglesi sulla borsa di Londra. Lasciandoli pascolare su altri mercati finanziari che loro stessi tollerano o creano come i mercati delle differenze dove si può scommettere sulle differenze di prezzo degli stessi titoli azionari pur non comprandoli e dunque non pagando la tassa. Il risultato è un sostanzioso prelievo fiscale (almeno 2 miliardi di sterline l’anno), la riduzione della volatilità della borsa inglese e i proventi derivanti dall’attività degli speculatori che pascolano su altre e vicine praterie».

Dal paper non sembra uscire un verdetto chiaro e definito rispetto alla bontà o meno della tassa in sé. Si tratta infatti di una scelta politica quella di tassare o meno le transazioni, e quindi dipende da che obiettivi si pone ogni governo e come pensa di perseguirli. «Per valutare l’impatto e l’opportunità di introdurre una Tobin tax bisogna decidere quanto è importante raccogliere risorse fiscali con questo strumento e per farne cosa, e se e quanto è importante aumentare o ridurre volatilità, liquidità e volumi di transazioni sui mercati».

Negli ultimi anni si è creata una grande confusione in merito alla Tobin Tax, adottata all’inizio del secolo come obiettivo di conquista da parte del movimento “No global”, che vedeva la possibilità di tassare le transazioni come un modo per arginare il mercato. Nella sua idea originale, la Tobin Tax doveva peraltro servire a limitare soprattutto le speculazioni valutarie, tassando le transazioni che avvenivano su mercati con valute diverse. Oggi che in Europa c’è la moneta unica (quasi dappertutto), le premesse e gli obiettivi vanno rivisti. «L’imposta sugli scambi internazionali doveva servire per diminuire le fluttuazioni dei tassi di cambio – spiegava Tobin in un’intervista a Der Spiegel nel 2001 –. L’idea è piuttosto semplice: ad ogni cambio da una valuta ad un’altra, si preleverebbe una piccola tassa, diciamo mezzo punto percentuale del montante. Quindi, si scoraggerebbero gli speculatori, perché molti investitori piazzano a brevissimo termine i loro soldi nelle valute. Se questi soldi vengono improvvisamente prelevati, i paesi devono alzare drasticamente i tassi di interesse in modo da mantenere attraente la valuta. Tuttavia, alti interessi sono spesso disastrosi per l’economia locale, come mostrato dalle crisi in Messico, del sudest Asiatico e della Russia negli anni novanta. La mia tassa ridarebbe alle banche di emissione dei paesi piccoli un margine di manovra e si opporrebbe abbastanza bene al dominio dei mercati finanziari».

Una cosa che non va dimenticata è che James Tobin non si è mai schierato assieme ai movimenti “No global” che prendevano spunto dalla sua idea per proporre programmi politici ed economici. «Vede, io sono un economista, e come la maggior parte degli economisti sono un sostenitore della libertà di scambio. Inoltre sono un sostenitore del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della WTO, istituzioni contro le quali si batte il movimento. Abusano del mio nome». Non lo puntualizziamo per screditare l’economista o la sua idea, ma per suggerire a quelli che la criticano che la Tobin Tax non ha un colore politico, ma una funzione pragmatica.

Fonte foto: flickr