C’è un’Europa che prova a strutturarsi dal basso, per vigilare sui pachidermici -per lentezza, ma anche per dimensioni- interventi che le istituzioni dell’Ue mettono in pista per seguire le linee guida da esse stesse tracciate per portare l’Unione fuori dalla crisi. Tra questi ci sono i comitati contro le Grandi opere inutili e imposte (Goii), ossia quegli interventi che hanno un impatto del tutto insignificante -se non dannoso- per la maggior parte della popolazione, mentre nascondono il loro scopo reale, che è indurre gli investitori a partecipare alla loro costruzione attraverso i project bond. Questi ultimi sono obbligazioni che uno Stato emette per vendere quote di partecipazione a un progetto, e dovrebbero servire ad attrarre nuovi finanziatori ora che quelli tradizionali (gli Stati e le banche) non sono in grado di fornire le risorse necessarie.
«Se l’obiettivo è attivare meccanismi rapidi per spingere la crescita dell’economia -si legge su Le strade dell’informazione-, i project bond non sono lo strumento più adatto almeno per due motivi: sono collegati a opere pubbliche che richiedono molti anni per essere realizzate; il mercato ha bisogno di tempo per familiarizzare con un nuovo strumento di investimento. Inoltre, occorre considerare che l’eventuale declassamento della Bei (Banca europea per gli investimenti) da parte delle agenzie di rating potrebbe vanificare in parte il vantaggio di questo schema di condivisione del rischio». Non è solo un sistema di meccanismi finanziari poco efficaci -e comunque non estranei alle dinamiche che hanno innescato la crisi attuale, ossia quelle speculative- a non convincere i comitati che si oppongono a tali progetti, bensì anche i processi decisionali e le pratiche coercitive di mobilitazione di intere popolazioni che ne conseguono. «Come nel caso di Acipa -scrive Altreconomia, il comitato che si oppone alla costruzione del Grande Aeroporto dell’Ovest di Notre Dame des Landes (vicino a Nantes, in Francia), dove da metà ottobre centinaia di contadini sono stati espulsi con la forza da 1.200 poliziotti e militari in assetto anti sommossa dalle terre su cui il primo ministro in persona vuole iniziare il prima possibile il cantiere (vedi articolo)».
Un incontro svoltosi a Firenze, organizzato dal Forum europeo che unisce le realtà contro le Goii, ha provato a mettere in fila i problemi sollevati da queste ultime, e sono emersi alcuni punti di contatto tra i diversi casi in atto sul suolo europeo: «Quelli riguardanti l’insostenibilità economica e finanziaria [dei progetti], la distruzione del territorio causata (le recenti alluvioni sono molto esplicative), la logica ormai senza senso della crescita a ogni costo, la collusione tra costruttori, politica e crimine organizzato, la necessità di veicolare le risorse pubbliche a disposizione in altri interventi realmente utili e necessari alla collettività». Questioni che non si risolvono nei “tafferugli” che scoppiano di tanto in tanto in Val di Susa contro il Tav, ma questioni più ampie e condivise che vedono associazioni e movimenti schierati contro il disegno della Commissione europea e di tanti governi nazionali, incluso quello italiano.
L’associazione Re:Common, che si impegna «a sottrarre al mercato e alle istituzioni finanziarie private e pubbliche, come Banca mondiale e Banca europea per gli investimenti, il controllo delle risorse naturali, restituendone l’accesso e la gestione diretta ai cittadini tramite politiche di partecipazione attiva» ha redatto un documento dal titolo Il business delle grandi opere. Come e perché i mercati finanziari investono in grandi infrastrutture. In esso (ne consigliamo la lettura, sono poche pagine scritte in modo semplice e chiaro) si ipotizza che «Forse tutto questo è funzionale a un’altra agenda -quella dei mercati finanziari e di attori che non hanno mai smesso di fare profitto nel contesto della crisi e di promuovere riforme strutturali che mettono sempre di più l’economia, la natura e le nostre vite nelle mani dei mercati. Un’agenda che vede proprio nelle infrastrutture un asset funzionale a investimenti speculativi che non hanno nulla a che fare con i bisogni reali di milioni di persone. Asset che grazie a interventi pubblici diventano sicuri anche laddove il mercato tradizionale li avrebbe cassati. Un mercato, quello attuale, paradossalmente sempre meno libero ma dopato dal sostegno degli Stati, funzionale agli interessi dell’alta finanza, e studiato per riversare sulla collettività le (probabili) perdite».