Ha compiuto 14 anni la cosiddetta “direttiva Bolkestein”, che tra le altre cose avrebbe dovuto garantire la messa all’asta delle concessioni balneari. Invece tutto resterà com’è, almeno fino al 2033. Si tratta di un tipico esempio di come spesso in Italia, mancando le capacità per elaborare strategie complesse, si finisca per affrontare le situazioni “con l’accetta”, aggravando e perpetrando disparità di trattamento.

Un sistema bloccato

Per capire di cosa stiamo parlando, vediamo innanzitutto in cosa consiste la direttiva europea in questione: «La “direttiva sui servizi”, questo è il suo nome corretto – spiega il Post –, fu approvata nel 2006, quando la Commissione europea era guidata da Romano Prodi, e sancisce la parità di tutte le imprese e i professionisti europei nell’accesso ai mercati dell’Unione: un’impresa tedesca o francese non deve subire svantaggi se vuole operare in Italia soltanto perché ha la sede in un altro paese dell’Unione. […] La direttiva stabilisce anche che quasi tutte le concessioni pubbliche, cioè beni di proprietà statale, come le spiagge o gli spazi occupati dagli ambulanti, possono essere concesse ai privati solo per quantità di tempo determinate al termine delle quali la concessione deve essere messa pubblicamente a gara». L’Italia si mosse con molto ritardo per recepire la direttiva, nel 2010, ma immediatamente trovò il modo di rimandare il problema al 2015. Prima di quella data, nel 2012, il Parlamento decise però che le licenze balneari non sarebbero state rinegoziate fino al 2020. Un ulteriore rinvio fu deciso alla fine del 2018, quando l’allora ministro dell’Agricoltura e del turismo, Gian Marco Centinaio, annunciò che in Senato era stato raggiunto un accordo per sospendere per altri 15 anni il recepimento della direttiva. Se ne sta riparlando in questi giorni perché, come spiega il Fatto Quotidiano, nel processo di conversione in legge del “decreto Rilancio”, è stato inserito un emendamento che elimina ogni possibilità di contenzioso a sfavore dei titolari degli stabilimenti, assicurando loro che fino al 2033 nessuno potrà mettere mano alle concessioni.

Cifre ridicole

«Quella che dovrebbe essere una gigantesca risorsa economica – si legge sul Fatto –, si traduce in un misero introito per lo Stato: le concessioni portano all’erario appena 105 milioni di euro, a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma in 15 miliardi di euro annui. Dividendo l’introito per le 25.000 concessioni, i gestori degli pagano allo Stato “zero”, per dirla con Carlo Calenda. “Il numero delle concessioni cresce ovunque, ma nessuno controlla”, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente». Bloccando queste concessioni (che in molti casi sono ferme da diversi decenni), nonostante si punti a tutelare le piccole imprese a conduzione familiare (che pure sono la maggior parte del mercato), si finisce per fare un grosso favore ai grandi locali e resort che sono sorti sulle coste. «In alcuni casi i “bagni” sono gestiti dalla stessa famiglia sin dall’inizio del secolo scorso, in virtù di un patto non scritto: in cambio di concessioni infinite e affitti molto bassi, le imprese balneari avrebbero investito nelle spiagge costruendo strutture ricettive e incentivando così il turismo. L’obiettivo è stato in parte raggiunto: l’Italia oggi gode di un litorale ricco di servizi, ma dove i prezzi sono molto alti e le spiagge libere sono rare». Vediamo alcuni esempi di quali effetti produce (e continuerà a produrre) questa situazione di stallo: «Per il Twiga di Marina di Pietrasanta (quasi 4.500 mq), dove si spendono mille euro al giorno, il proprietario Flavio Briatore ( Daniela Santanché è una socia) paga 17.619 euro di canone allo Stato, contro 4 milioni di fatturato. Un anno e mezzo fa l’imprenditore ha acquistato la concessione dalla storica famiglia di proprietari a 3,5 milioni di euro. Al Papeete (5 mila mq e 35 euro per due lettini e un ombrellone), lo stabilimento romagnolo reso famoso da Matteo Salvini, lo scorso anno i ricavi sono volati a 3,2 milioni, ma il canone – riporta il Corriere – è rimasto fermo a 10 mila euro. Secondo il report di Legambiente, a Santa Margherita Ligure, il Lido Punta Pedale versa 7.500 euro all’anno; a Forte dei Marmi il Bagno Felice 6.560 euro per 4.860 mq; il Luna Rossa di Gaeta 11.800 euro per 5.381 metri, mentre il Bagno azzurro di Rimini ne versa 6.700. In Sardegna, per la spiaggia di Liscia Ruja, l’hotel Cala di Volpe paga 520 euro all’anno».

(Foto di Juli Kosolapova su Unsplash)