La cooperazione internazionale si può fare in tanti modi. C’è chi entra in una grande organizzazione e costruisce lì dentro il proprio percorso, e c’è chi prova a fare le cose a modo suo investendo tempo, risorse, cuore. Giovanni Fontana, sul suo blog per il Post, racconta la propria esperienza con Second Tree, la ong che ha contribuito a fondare.
Un mio amico, che mi prende sempre in giro dicendomi “sei buono” perché sa quanto lo odio, ha letto una bozza di questo post e mi ha detto che “la fatica di essere buoni” è il sunto di ciò che ho scritto.
Io la penso un po’ diversamente, sull’essere buoni, e lo devo a una cosa molto semplice ma che ho capito solo dopo aver già vissuto un bel pezzo di vita e cioè che al di fuori dei film americani – 1) ciò che sei bravo a fare; 2) cioè che ti piace fare; e 3) ciò che è giusto fare – sono cose diverse. Solo alcuni di noi hanno la fortuna, e il privilegio, che almeno due di queste cose coincidano. Gli altri devono faticare d’insoddisfazione, fare un po’ e un po’, barcamenarsi fra l’uno e l’altro, tirare a indovinare. E alla fine fare una scelta. Io ho capito – ci ho messo molto, ma l’ho capito; lentamente e grazie all’influenza di alcune persone importanti della mia vita, una in particolare – che l’unica cosa che davvero vale la pena è la terza: fare ciò che si ritiene giusto, provare ad aiutare chi è vulnerabile.
Così, senza grosso spirito messianico, quattro anni fa ho deciso di andare a lavorare nei campi profughi in Grecia, quelli che ricevono le persone che scappano dalla guerra in Siria. Dopo un po’ di tempo, per essere presi più sul serio dalle altre organizzazioni e dalle autorità greche abbiamo aperto una piccola ONG, Second Tree.
(Foto di Ravi Roshan su Unsplash)