Un progetto di ricerca statunitense, dall’eloquente nome PREDICT, ha studiato dal 2009 strategie proattive per aiutare i paesi a prepararsi alle epidemie. Nel 2019, l’amministrazione Trump ha deciso di non rinnovare i fondi al progetto e il suo fondatore, lo scienziato ed esperto di virologia Dennis Carroll, ha dovuto cercare altre strade per continuare le proprie ricerche. Si tratta di un piccolo episodio (di certo non saremmo in una situazione diversa da quella attuale se anche PREDICT fosse ancora attivo), ma piuttosto indicativo dell’atteggiamento della politica americana rispetto all’attuale emergenza data dalla pandemia di coronavirus. Ma il problema non riguarda solo gli Stati Uniti, né solo l’attuale crisi. La comunità scientifica è consapevole già da tempo della minaccia rappresentata dai numerosi virus presenti in natura, che prima o poi possono trovare il modo di farsi largo tra gli esseri umani, magari usando un animale come tramite. Ciò che sta mancando, sottolinea Carroll in un’intervista per il sito Nautilus, è un approccio internazionalista al problema. Nonostante quanto accaduto in Cina con il coronavirus SARS-CoV-2, non c’è stato un flusso di informazioni tale da permettere al resto del mondo di adottare misure precauzionali prima che scoppiasse l’emergenza. I virus non conoscono i confini politici, e un approccio indipendente tra diversi paesi non può che accrescere i rischi e aiutare il virus a diffondersi. «Il populismo negli Stati Uniti e in Europa ha frammentato le reti globali – ha spiegato Carroll – che in passato erano state in grado di portare a un approccio globale verso problemi come questo. Per come la vedo io, ogni Paese sta agendo per conto proprio. L’Italia non si sta coordinando con Bruxelles. Bruxelles non si sta coordinando con la Germania. Non stiamo vedendo un approccio regionale coerente a questo problema nonostante l’Europa abbia una piattaforma per farlo».

Un mondo che cambia in fretta

Per descrivere la situazione che stiamo vivendo, Carroll usa un’immagine che tutti conosciamo, quella della rana nella pentola. Se buttiamo la rana nell’acqua bollente, essa reagirà cercando di mettersi in salvo a tutti i costi. Se invece la immergiamo in acqua fredda, e poi mettiamo la pentola sul fuoco,la rana si ritroverà bollita senza nemmeno accorgersene. L’aspetto poco confortante di tutto ciò è che in questo momento, secondo Carroll, noi siamo la rana. «I nostri governi e la società in generale sono guidati dall’inerzia – ha detto Carroll –. Non siamo molto rapidi nell’adattarci a condizioni nuove. Non ci rendiamo conto che il mondo in cui viviamo è molto diverso da quello in cui abbia mai vissuto la nostra specie». Uno degli aspetti che sono cambiati di più è la situazione demografica. Solo un secolo fa la popolazione mondiale contava circa un miliardo di persone. Oggi siamo a 7 miliardi, ed entro la fine di questo secolo si calcola che si aggiungeranno altri 4 o 5 miliardi di persone. L’uomo ha inoltre conquistato sempre più spazi sul pianeta, costruendo impianti e vie di comunicazioni anche in luoghi un tempo isolati. Questo ci ha portati molto più a contatto con specie animali che possono contagiarci con i virus di cui sono portatrici. La densità di popolazione e l’altissimo numero di spostamenti che abitualmente si registrano fanno il resto. E infatti, secondo la ong EcoHealth Alliance, le epidemie improvvise sono 2-3 volte più frequenti negli ultimi anni rispetto al 1940, e il ritmo continua a crescere.

Cosa rende questo virus diverso?

Rispetto alle pandemie degli anni scorsi (le influenze aviarie che si sono diffuse tra il 2002 e il 2009), ciò che rende più pericoloso il SARS-CoV-2 è il suo minore tasso di letalità. Affinché un virus si diffonda, ha spiegato Carroll, è molto meglio che l’organismo che ne viene colpito non muoia. In questo modo potrà continuare a riprodursi e nel frattempo infettare altre persone. Ecco perchè il tasso di letalità relativamente basso di questo coronavirus ne sta favorendo una rapida trasmissione. Il suo comportamento è quindi più simile a quello di altri virus, come l’influenza. Per questo motivo gli scienziati sospettano (ma finora non c’è la certezza) che possa continuare a circolare fino all’estate, quando le condizioni climatiche lo renderanno inattivo per alcuni mesi, salvo poi riprendersi in autunno quando le temperature caleranno di nuovo.

Perché è necessario un approccio globale

La risposta scontata è che a un problema globale deve seguire una risposta globale. La sindrome da coronavirus (COVID-19) colpirà probabilmente tutto il mondo, e non dappertutto il sistema sanitario è sviluppato come lo è in Cina o in Europa. La situazione dell’Iran, di cui ancora si sa poco perché le cifre ufficiali sono poco credibili, ne potrebbe essere la prima prova. Come abbiamo detto il coronavirus non è così letale come altri virus che si sono diffusi in passato. Ma proprio la sua capacità di diffondersi velocemente potrebbe portare al collasso (come in parte sta già succedendo nel Nord Italia) il sistema sanitario, che non sarà più in grado di occuparsi delle normali patologie delle persone perché troppo impegnato a curare i tanti ammalati di COVID-19 che richiedono assistenza. «Bisogna occuparsi delle comunità mondiali che hanno più bisogno di assistenza – ha detto Carroll –. Siamo tutti parte dello stesso ecosistema. O ci prepariamo e rispondiamo con uno sguardo globale oppure no. E se le nostre strategie saranno indipendenti stato per stato, siamo in guai grossi».

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