Jacinda Ardern, Nicola Sturgeon, Natalia Gavrilita, Sanna Marin. Sono i nomi delle ex leader rispettivamente della Nuova Zelanda, della Scozia, della Moldavia e della Finlandia. Marin è stata l’ultima a uscire di scena, dopo avere perso le elezioni politiche nel suo paese qualche settimana fa. Le prime tre invece hanno dato le dimissioni nei primi mesi del 2023. Le donne alla guida di governi nel mondo erano già poche, solo 16, in pochi mesi sono scese a 12 (tutte infatti sono state sostituite da colleghi uomini).

Ovviamente ciascuna di esse ha una storia diversa, ma ci sono alcuni elementi che ritornano nei discorsi che hanno accompagnato le dimissioni delle prime tre. Parafrasando, hanno detto cose come: “Bisogna capire quando è il momento di lasciare il posto a qualcun altro”, “Non ho più abbastanza energie per fare questo lavoro e voglio dedicarmi alla famiglia”, “È arrivato il momento”. Partiamo da una domanda: vi ricordate quando è stata l’ultima volta che avete sentito un uomo fare dichiarazioni (e azioni) del genere? Probabilmente no, e questo è già un elemento degno di nota.

Il primo pensiero è che una tale franchezza nel comunicare le proprie motivazioni possa confermare lo stereotipo della donna “debole”, non all’altezza di reggere a ruoli che implicano una pressione altissima per un tempo prolungato (soprattutto in un periodo che ha visto susseguirsi, in pochi anni, problemi come il terrorismo internazionale di matrice islamista, la pandemia, l’invasione dell’Ucraina). Non è così secondo Barbara Leda Kenny, esperta di politiche di genere della Fondazione Giacomo Brodolini, che ne ha parlato qualche giorno fa al Mondo, il podcast quotidiano di Internazionale. Secondo Kenny, al contrario, esempi del genere possono forse contribuire ad abbattere lo stereotipo dell’uomo forte. Innanzitutto bisogna ricordare, fa notare la ricercatrice, che la democrazia implica la dimensione temporale del potere, e questo troppo spesso viene dimenticato.

Dimettersi quando si sente di non avere più le forze significa inoltre dare al bene comune un valore più alto rispetto alla propria posizione personale. Ammettere la fatica, riconoscersi vulnerabili, è un cambiamento positivo. È anche un comportamento che riflette il pensiero di donne che non si ritengono le uniche persone in grado di ricoprire un certo incarico, riconoscendo al contrario le competenze altrui. In un mondo in cui prevale la narrazione di uomini che si presentano come “salvatori”, e in quanto tali insostituibili, scegliere di farsi da parte offre una contronarrazione che può essere molto costruttiva.

Più in generale, possiamo rilevare come la situazione per le donne in ruoli di potere sia certamente migliorata nel corso degli ultimi decenni, ma resta ancora molto da fare per una piena parità, che non sia solo numerica (comunque ancora lontana) ma anche sostanziale.

Kenny spiega infatti che, una volta elette, le donne hanno un’altissima probabilità (molto più alta di un uomo) di subire forme di violenza fisica, verbale, digitale, in particolare se fanno parte della comunità LGBTQIA+. Inoltre il metro di giudizio che si applica su di loro è sempre diverso rispetto a quello che si applica agli uomini. Sono spesso giudicate prima in quanto donne, e poi per ciò che fanno. La narrazione mediatica su di loro prende in considerazione, dando loro uno spazio esagerato, tutta una serie di elementi che non prende in considerazione in caso di uomini, come vestiti, scarpe, taglio di capelli, scelte di make-up. Tutte cose che sminuiscono il pensiero, le competenze, le idee delle leader in questione.

Tra questi aspetti laterali, ce ne sono alcuni che sarebbero irrilevanti per gli uomini, o anzi possono addirittura esaltarne la figura, mentre se le protagoniste sono donne la loro autorevolezza ne risulta scalfita. Se Obama si lascia andare a un ballo sfrenato va tutto bene, anzi, «diventa ancora più figo», precisa Kenny. «Se balla Sanna Marin bisogna fare un’alzata di scudi internazionale per dire che tutte balliamo, tutte ci divertiamo, e che anche una premier può ridere».

(Foto del governo finlandese su flickr)

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