Siamo sicuri di sapere che cos’è il populismo? Tutti ne leggiamo e ne parliamo, ma il populismo rientra tra quei fenomeni di cui probabilmente non abbiamo ben chiari i contorni e le implicazioni. Internazionale ha tradotto e pubblicato un articolo del Guardian in proposito qualche settimana fa. Ne proponiamo un estratto.
Quando sui mezzi d’informazione si parla di populismo, di solito il termine è usato come se tutti conoscessimo già la sua definizione. E in effetti sappiamo più o meno di cosa si tratta, almeno finché ci limitiamo a citare gli avvenimenti che il populismo dovrebbe spiegare: la Brexit, Donald Trump, il dominio di Viktor Orbán in Ungheria, l’ascesa di Jair Bolsonaro in Brasile. Il termine evoca il risentimento della gente comune, amplificato da politici carismatici che fanno promesse impossibili. Spesso il populismo sembra uscito da un film dell’orrore: un batterio che è riuscito a intrufolarsi in qualche modo tra le difese della democrazia – aiutato, forse, da Steve Bannon o da qualche altro astuto stratega della manipolazione di massa – e che ora avvelena la vita politica, creando nuove truppe di elettori populisti tra “noi” (notate che gran parte di quello che si scrive sul populismo presuppone un pubblico ostile al fenomeno).
Non mancano le voci illustri che lanciano avvertimenti sulla pericolosità del populismo e sulla necessità di adottare misure immediate per combatterlo. L’ex premier britannico Tony Blair dirige l’Istituto per il cambiamento globale (Igc), un’organizzazione fondata, stando al suo sito, “per respingere l’atteggiamento distruttivo del populismo”. Nel suo rapporto del 2018 Human rights watch ha esortato le democrazie di tutto il mondo a non “capitolare” di fronte alla “sfida populista”. La nascita dei “movimenti populisti”, ha detto l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama nell’estate del 2018, ha contribuito al boom globale “della politica della paura, del rancore e della chiusura” che apre la strada all’autoritarismo. “Non sono allarmista. Mi limito a constatare i fatti”, ha affermato.
Quando il populismo è inquadrato in questo modo, le implicazioni sono evidenti. Tutti i cittadini responsabili sono tenuti a fare la loro parte in questa battaglia: riconoscere il populismo quando lo vedono, capire i suoi richiami (senza farsi ingannare) e sostenere le politiche che ne fermano l’avanzata, salvando la democrazia. Ma l’accumularsi di editoriali concitati e rapporti di vari centri studi sulla minaccia populista ha scatenato la reazione scettica di quelli che si chiedono se il populismo esista davvero. Ormai è relativamente frequente incontrare l’idea che, così come a Salem non esistevano le streghe, in politica non esistono veri populisti, esistono solo persone, atteggiamenti e movimenti che i politici di centro non capiscono, anche se chi denuncia questo pericolo evita di spiegare esattamente perché. Il populismo, in questo quadro, è uno spaventapasseri: una non entità invocata allo scopo di alimentare la paura. Questa tesi si è fatta largo perfino tra gli stessi moderati. “Cancelliamo la parola ‘populista’”, ha scritto nel luglio del 2018 Roger Cohen, editorialista del New York Times. “È diventata così approssimativa da non significare più niente, un epiteto abusato e affibbiato a molteplici manifestazioni di rabbia politica.
Peggio ancora, è carica di disprezzo ed è applicata a tutti gli elettori che hanno deciso che i partiti politici tradizionali non hanno fatto niente per il loro reddito, per la scomparsa dei posti di lavoro o per la sensazione di declino avvertita negli ultimi vent’anni”. È difficile negare che tanto parlare di populismo oscura la questione invece di chiarirla, e ci dice più sui crociati dell’antipopulismo di quanto dica sui partiti o sugli elettori populisti. Ma molto prima che il populismo affascinasse i mezzi d’informazione sulle due sponde dell’Atlantico, un gruppo di studiosi lo stava già analizzando, nel tentativo di capire cosa fosse e quali lezioni potesse offrire alla politica democratica. Il dibattito che ne è nato, come molti altri dibattiti accademici, è complesso, autoreferenziale e destinato a restare nell’ombra del caos mediatico e del discorso politico. Ma ci aiuta a capire che l’idea di populismo è più di una semplice favola centrista. Grazie soprattutto alla persistente incapacità dei governi occidentali di realizzare qualcosa di simile a un progetto credibile di benessere e sicurezza per tutti nell’era postindustriale, oggi attraversiamo un periodo in cui le tradizionali reti di collegamento tra cittadini, ideologie e partiti politici stanno crollando o se non altro cominciano ad allentarsi e a spostarsi. Perciò la questione del populismo non sparirà. Nei prossimi anni probabilmente si moltiplicheranno i movimenti etichettati come populisti, i movimenti che si dichiarano populisti, i movimenti che per difendersi continueranno a ripetere di non essere populisti e le discussioni su quanto il populismo rappresenti il problema o la soluzione.
Il dibattito accademico sul fenomeno dimostra che per capire quello che sta succedendo non basta una semplice definizione del termine. Insomma, non possiamo parlare davvero di populismo senza parlare delle nostre contrastanti concezioni di democrazia e di cosa realmente significa per i cittadini essere sovrani.
È forse significativo che il dibattito pubblico sulla presunta minaccia populista alla democrazia abbia riguardato solo in minima parte il funzionamento della democrazia stessa. Forse diamo per scontato, senza pensarci troppo, che quella di democrazia sia un’idea di per sé così chiara e lampante che sappiamo già tutto ciò che c’è da sapere sull’argomento. O forse siamo arrivati a considerare la democrazia nella sua forma occidentale – sostanzialmente la democrazia liberale – come l’unico possibile punto d’arrivo per l’evoluzione della politica. Il populismo, anche se si presenta in molte forme, ci ricorda sempre che niente potrebbe essere più lontano dalla verità.
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(Foto di Jørgen Håland su Unsplash)