Il terremoto che ha colpito il Centro Italia il 24 agosto ha riaperto il dibattito sulla messa in sicurezza del nostro Paese rispetto al rischio sismico. Sorgono domande e dubbi sulle politiche adottate (o non adottate) fin qui, e su cosa si può fare per evitare che tutto questo accada ancora. Il sito internet Sbilanciamoci.info ha pubblicato un esauriente articolo che descrive la situazione italiana da questo punto di vista. Innanzitutto, per giudicare ciò che sta succedendo, è importante conoscere le caratteristiche del suolo del nostro Paese e quanto è costato finora intervenire per fare fronte alle conseguenze dei terremoti: «È noto che l’Italia è un paese sismico – si legge nell’articolo firmato da Anna Donati, esperta di infrastrutture e mobilità –, che in media ogni cinque anni c’è un grave terremoto, che dal dopoguerra ad oggi è stato stimato che per sette gravi terremoti sono stati spesi oltre 121 miliardi per l’emergenza e la ricostruzione. Ben 21 milioni di persone vivono in zone classificate ad rischio sismico molto o abbastanza elevato (1 e 2), di cui 3 milioni nella sola zona 1 di massima esposizione. Altri 19 milioni di persone risiedono nei comuni localizzati in zona 3. Se poi guardiamo anche ad altre calamità come frane e alluvioni a causa del dissesto idrogeologico del paese – ci dicono i dati Ance/Cresme – dal 1944 al 2012 arriviamo ad un totale di 242 miliardi di euro destinati all’emergenza. Il risultato è che abbiamo speso tante risorse pubbliche e restiamo un paese ad alto rischio».
Uno dei paradossi più assurdi e tragici del nostro Paese è che continuiamo a spendere soldi, ma restiamo sopraffatti dagli eventi, facendoci spesso trovare impreparati anche quando questi si ripresentano con caratteristiche molto simili al passato. I ripetuti «Mai più!», ripetuti dalla società civile e presi come impegno dalla politica a seguito di ogni calamità naturale i cui effetti si sarebbero potuti limitare, restano spesso slogan privi di reali conseguenze. Se infatti non tutto va sempre male nelle operazioni di ricostruzione (si veda il caso dell’Emilia dove, salvo episodi da chiarire, le operazioni stanno andando molto meglio che in altri casi), è proprio nella prevenzione che, non potendo agire d’emergenza, la politica si trova più in difficoltà nell’elaborare piani d’intervento strutturati e decisi. Attualmente l’adeguamento antisismico in Italia «è obbligatorio – ai sensi di una circolare del 2004 – per luoghi pubblici strategici come scuole, comuni, ospedali, prefetture, beni culturali, musei. Lo è anche per nuovi edifici e quando vi è una ristrutturazione rilevante degli edifici esistenti. Non è obbligatorio invece per gli edifici esistenti».
Se dunque c’è speranza sul fatto che nuovi edifici e ristrutturazioni dell’esistente (quando fatte seguendo le norme) possano resistere a futuri terremoti, entro una certa entità, manca un piano che preveda un progressivo adeguamento del panorama urbano/edilizio. «Si tenga conto che in Italia ci sono circa 30 milioni di abitazioni di cui circa il 50 per cento è stato costruito prima del 1974, in completa assenza di una normativa antisismica. Sono gli edifici più vetusti ad essere in pessimo stato di conservazione, ma senza sottovalutare edifici più recenti ma abusivi, costruiti in zone ad alto rischio e di pessima qualità». Spesso non è facile conoscere lo stato di salute degli edifici già costruiti, dato che manca un sistema di certificazione standardizzato. Su questo, pare che il governo abbia allo studio un sistema che, sulla falsa riga di quello per la certificazione energetica, suddivida gli edifici esistenti secondo una scala che andrà da A a F. questa classificazione dovrebbe poi interagire con un altro provvedimento in preparazione, il cosiddetto piano “Casa Italia”, che prevederà tra le altre cose dei bonus fiscali per le ristrutturazioni commisurati alla classe di certificazione statica degli edifici.
“Casa Italia” è «Un piano del costo stimato di 2 miliardi per 20 anni su cui è stato avviato il confronto con ordini, esperti, sindacati e parti sociali, associazioni ambientaliste». Il rischio individuato da Donati rispetto a quanto se ne sa è «che a voler mettere tutto insieme, con l’incognita ancora delle risorse tutta da identificare, alla fine si traduca in diffusi interventi a pioggia e di questi ben poco si traduca in lavori di riduzione del rischio sismico là dove è noto, urgente e grave». Un rischio concreto, che speriamo ovviamente non si realizzi. Qualche informazione in più sul piano del governo si trova in alcuni articoli pubblicati sul Sole 24 Ore. Secondo Massimo Frontera si tratterà di «Interventi “tipo” di nuova costruzione e messa in sicurezza antisismica. E poi misure incisive per aggredire i due principali canali di intervento sul patrimonio: la diffusa e frazionata platea di residenze private e tutti gli edifici pubblici di importanza strategica». Per quanto riguarda le risorse, lo stesso autore scrive che «Per mettere benzina nel piano “Casa Italia” si continuerà a seguire la strategia di una doppia leva che da una parte attingerà in modo massiccio ai Fondi europei e ai fondi sviluppo e coesione. L’altra leva è quella degli incentivi ai privati, che è la strada maestra per attivare gli interventi sulle abitazioni private, ma anche sul patrimonio di uffici e attività produttive, non meno importanti».
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