La formula è sempre quella, e alla fine ci è cascato anche il buon Arrigo Sacchi: «Io non sono razzista, ma…». È la premessa tipica di chi sente il bisogno di chiarire che ciò che sta per dire non vale in generale, ma in un caso particolare. E quindi, pur essendo un’eccezione, la regola è confermata. Non vogliamo qui prendercela con Sacchi perché l’ha già fatto mezzo mondo, mettendo in risalto una frase del suo intervento sullo stato del calcio italiano che poneva l’accento sull’eccessivo ricorso ai giocatori stranieri nei nostri campionati, a svantaggio dei giovani italiani che non trovano spazio nei vivai delle squadre, a tutto discapito delle prestazioni della nazionale e delle squadre di club nelle competizioni europee.
Di per sé il ragionamento, pur non essendo noi esperti di calcio, ci sembra sensato (sebbene faccia ricorso a concetti quali “orgoglio italiano” e “dignità”, che ci sembrano del tutto fuori luogo visto il contesto). Il problema è il modo in cui viene espresso: «Non sono certo razzista – premette Sacchi – e la mia storia di allenatore lo dimostra. A partire da Rijkaard, ma a guardare il Torneo di Viareggio mi viene da dire che ci sono troppi giocatori di colore, anche nelle squadre Primavera». Siamo spiacenti per Sacchi, ma uno nella sua posizione, con la visibilità che ha, non può pensare di rilasciare una dichiarazione di tale leggerezza sperando che non diventi dopo tre minuti il titolo di tutte le principali pagine d’informazione sportiva d’Italia, e poi del mondo. Non è detto che se uno sa fare bene l’allenatore debba essere per questo un grande comunicatore, ma un po’ d’esperienza il Nostro, dopo tanti anni nell’insidioso ambiente calcistico (e dei media sportivi) dovrebbe averla. Comprensibile quindi che egli abbia tentato di ritrattare, dissociandosi apertamente dall’interpretazione delle sue parole. Lo strafalcione, però, rimane.
Come si può, nel 2015, identificare ancora il concetto di “giocatori di colore” con “stranieri”? Siamo alle seconde e terze generazioni di immigrati ormai: i ragazzi a cui si riferisce Sacchi potrebbero essere a tutti gli effetti italiani e magari non essere mai stati nel Paese d’origine dei propri genitori o nonni. Non è bastato vedere Mario Balotelli con la maglia della nazionale italiana, evidentemente. Il giornalista inglese Simon Kuper, con tipico umorismo british, ha pubblicato su Twitter una battuta in cui dice: «Mi aspetto che il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, prenda seri provvedimenti contro il commento razzista di Sacchi. Err, aspetta un attimo…». Già, un momento, perché il presidente della Federazione italiana giuoco calcio sta scontando una sospensione di sei mesi per dichiarazioni di stampo razzista. Tornando indietro, si potrebbe ricordare la vignetta della Gazzetta dello sport che ritraeva un Balotelli in stile King Kong, mentre scalava il Big Ben. Il giornale si è poi scusato perché molti lettori non hanno apprezzato l’accostamento, ma rigettando ogni accusa di intenti razzisti espressi dalla vignetta.
Sta proprio qui il problema: nel fatto che non ci si renda conto, molto spesso, del razzismo implicito nelle parole. Quel razzismo strisciante che si nasconde anche nelle battute omofobe o in quelle contro le donne. Basta guardare ricerche come quella di Vox – osservatorio italiano sui diritti, che ha fotografato la Mappa dell’intolleranza, monitorando per otto mesi ciò che veniva pubblicato su Twitter nelle varie zone d’Italia. Ne è emersa una mappa che dipinge l’Italia come un Paese che ha ancora tanto lavoro da fare per superare pregiudizi e semplificazioni che, purtroppo, anche la politica spesso fomenta. Su tutti i tweet analizzati tra gennaio e agosto 2014, 154.170 avevano contenuto razzista, 110.774 omofobo, 6mila antisemita, 479.654 contro la disabilità, 1.102.494 misogino.
Sbaglia chi, come Pelé, tende a minimizzare fatti come quello che abbiamo commentato: «Quando ero un giocatore professionista era lo stesso, ma non di dava attenzione ai razzisti. Se avessi fatto causa ogni volta che mi hanno chiamato negro…». Già, se ognuno, in ogni luogo e in ogni tempo, facesse la propria parte per denunciare chi discrimina, forse ci sarebbe più sensibilità verso il problema, e articoli come questo non si scriverebbero più.