Esiste una “dittatura” del politicamente corretto in Italia? Se lo chiede Luigi Manconi, in una riflessione sul linguaggio della politica e dei media contenuta nel libro intervista Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica, curato da Christian Raimo. Ne riportiamo un estratto, che trovate in forma più estesa sul sito Minima & Moralia.

Non so altrove, ma in Italia il Politicamente Scorretto rischia di rappresentare davvero «l’estremo rifugio delle canaglie». Esagero un po’ ma è certo che per molti si tratta solo di un pretesto per poter finalmente tornare a chiamare «froci» gli omosessuali e «negri» gli africani. E magari, un domani, «mongoloidi» le persone affette da sindrome di Down. Naturalmente, in nome della lotta più rigorosa «contro tutte le ipocrisie e tutti gli eufemismi». Fin qui, le «canaglie». Ma la cosa sarebbe scarsamente significativa se quella tendenza non fosse diventata un vero e proprio «fenomeno culturale», ormai largamente maggioritario, e se non riguardasse ormai anche tante brave persone, e persino amici intelligenti e avversari leali.

In altre parole, si è verificato un colossale ribaltamento della realtà che nega l’evidenza e la rovescia nel suo esatto contrario. Dai primi anni Ottanta, si può dire, la restaurazione rispetto alle idee e ai valori che avevano animato il decennio precedente ha prodotto un senso comune e una mentalità condivisa dove dominano orientamenti schiettamente conservatori. Ma, allo stesso tempo, in alcuni ambienti intellettuali, politici e giornalistici si è affermato uno stereotipo incrollabile: in Italia trionferebbe il Politicamente Corretto, inteso – qui cito uno dei più ferventi interpreti nostrani, Giuliano Ferrara, prima di una recentissima resipiscenza – come «pensiero unico, dominante, mainstream dell’intolleranza e nuova abbrutente religione di stato».

Quel pensiero unico consisterebbe in una egemonia ideologica, costruita su valori di uguaglianza e solidarietà, di libertà e convivenza pacifica. E il tutto si tradurrebbe in un generalizzato buonismo, che alligna per ogni dove, invadente e onnipervasivo: e, ancora, in un atteggiamento che «sfiora la venerazione» verso tutte le minoranze. Il dispotismo del Politicamente Corretto si manifesterebbe come linguaggio pubblico, mentalità dei gruppi dirigenti e della società civile, sistema di proibizioni e veti che condizionerebbero la politica e la vita collettiva.

Da questa fosca rappresentazione discendono almeno tre conseguenze. La prima, la più scontata e visibile, è quella che produrrebbe la «igienizzazione del linguaggio». La seconda, più insidiosa, è quella che porterebbe alla persecuzione dei dissidenti, indocili alla disciplina della correttezza politica. La terza, la più nefasta, è quella che determinerebbe l’incontrastata influenza dell’ideologia buonista sulle politiche pubbliche.

Quanto al linguaggio, si pensi all’ilarità perbenista che accoglie il ricorso a definizioni come «diversamente abile». E a come il ceto intellettuale più brillante sembra scompisciarsi dalle risate di fronte alla pretesa degli spazzini di venir definiti «operatori ecologici». Quest’ultima formula è certamente incresciosa, ma nasce dall’esigenza di cambiare un termine diventato spregiativo. Può essere modificato e migliorato ma va ricordato che «il diritto a chiamarsi» (darsi il nome che si preferisce e pretendere che con esso si venga appellati) è una premessa essenziale del riconoscimento della propria identità- dignità. Insomma, l’esercizio del Politicamente Corretto è qui una delle azioni che informano i processi di civilizzazione del senso comune nelle società democratiche. Definire omosessuale l’omosessuale può/deve corrispondere alla crescita di un atteggiamento di rispetto nei suoi confronti e al riconoscimento dei suoi diritti, e può/deve contribuirvi. L’ipocrisia non consiste nel ricorso a un termine non discriminatorio, bensì nel mancato adeguamento a quel termine di una condizione di fatto.

La questione del linguaggio è importante proprio perché alle parole corrispondono (devono corrispondere) fatti concreti e condizioni materiali. E c’è il serio sospetto che una definizione negativa, o comunque non rispettosa, possa alimentare un atteggiamento negativo, o comunque non rispettoso nei confronti di quella stessa persona.

Prendiamo, per capirci, il mio caso personale. Sotto il profilo clinico, sono un ipovedente ai minimi termini. Sotto il profilo legale sono un cieco civile (immagino che quel «civile» si riferisca al fatto che non sono stato ferito in guerra). Le risorse e i privilegi di cui godo rendono assai meno pesante il mio stato ed è per me pressoché insignificante il termine utilizzato per definire la mia condizione. Sarebbe lo stesso se non godessi di quelle risorse e di quei privilegi?

D’altra parte, l’idea che viviamo sotto la dittatura del Politicamente Corretto induce chi dice di sottrarvisi a ritenersi una sorta di reietto della società o di ribelle iconoclasta. È questo che permette ai più conformisti di immaginarsi come terribilmente «controcorrente» e audacemente «fuori dal coro». E, infatti, tra i conservatori è molto diffuso il vezzo di presentare le proprie opinioni, quelle più in linea con gli umori popolari maggiormente diffusi e regressivi, come minoritarie e ardimentose, frutto di un’elaborazione indipendente e di uno splendido isolamento.

Accade così che sul più autorevole quotidiano italiano un autorevole storico affermi autorevolmente che in Italia «da tempo essere e dirsi cristiani non solo non è più intellettualmente apprezzato ma in molti ambienti è quasi giudicato non più accettabile» (Ernesto Galli della Loggia). Ma che ambienti frequenta, il nostro carissimo Ernesto? Questa sensazione di minorità, avvertita da chi pure dispone di risorse intellettuali e materiali tali da attribuirgli un significativo potere, è assai diffusa. E non sembra doversi solo ed esclusivamente a una civetteria mondana. Tanto è vero che un simile atteggiamento alimenta poi quella che definivo la più nefasta delle conseguenze: l’idea che la politica del nostro paese sia dominata, appunto, dalla retorica del Politicamente Corretto e dal suo più perverso frutto: il buonismo. Ed è proprio questo che rivela come un simile discorso non sia limitato a una controversia linguistica, ma rimandi a un’analisi della realtà sulla quale il dissenso è radicale.