
Nonostante l’inguaribile ottimismo del governo, tutti gli indicatori confermano che gli italiani, a livello economico, stanno sempre peggio. I salari per chi entra nel mondo del lavoro si sono abbassati di molto rispetto a qualche anno fa, e in più si deve scontare una condizione di costante precarietà (per non parlare dei dati sulla disoccupazione). Sette milioni di italiani guadagnano meno di mille euro al mese e, secondo uno studio della Fisac-Cgil, anche lo stipendio netto medio si è abbassato: «Il salario mensile effettivamente incassato è di 1.327 euro, che per una singola persona possono essere accettabili ma per una famiglia con figli no». La situazione non è spalmata in maniera progressiva su tutta la società, anzi, il divario tra i salari più bassi e quelli più alti va aumentando. In media i top manager guadagnano circa 225 volte di più rispetto a un lavoratore dipendente, 6,5 milioni all’anno contro 28.593. Nel 1970 il rapporto era di 20 a 1. In altre parole, va assottigliandosi sempre di più la fascia un tempo occupata dalla “classe media”, mentre si allarga la forbice tra chi ha di più e chi ha meno: solitamente uno dei primi campanelli d’allarme che segnano l’impoverimento di un Paese. Il raffronto con la Germania è impietoso, visto che nel Paese guida dell’Europa (dove il costo della vita è paragonabile a quello dell’Italia) i cittadini guadagnano mediamente 6mila euro in più all’anno.
I consumi in Italia continuano a calare, non sono bastati gli 80 euro in busta paga a fare invertire la tendenza (lo dice anche Standard & Poor’s), tanto che l’Ocse ha rivisto al ribasso le stime di ripresa della nostra economia. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, scrive Lavoce.info «vede il Pil dell’Italia in calo dello 0,4 per cento per il 2014 e quasi piatto per il 2015. È un netto calo rispetto alle stime diffuse in precedenza. Solo 9 mesi fa nel dicembre 2013 si stimava una crescita 2014 pari allo 0,5 per cento e un robusto +1,4 per cento per il 2015». Le previsioni erano quindi ottimistiche, ma l’osservazione dell’andamento dei primi due trimestri del 2014 ha costretto a rivedere le cifre.
Non è bastata la rivalutazione del Pil da parte dell’Istat, che tenendo conto del nuovo Sistema europeo dei conti (Sec 2010) ha portato il prodotto interno lordo (misurato sul 2011) da 1.579,9 a 1.638,9 miliardi di euro. L’aumento della cifra è dovuto al nuovo sistema di calcolo introdotto in Europa, che da ora include anche il valore generato da «attività vietate dalle leggi nazionali, ma oggetto di uno scambio volontario». In sostanza, dopo quella sommersa, anche l’economia illegale andrà a comporre la misura della ricchezza degli Stati. Come fa notare Tito Boeri in un articolo sull’edizione cartacea di Repubblica, questo principio ha un effetto anche sulla misura della pressione fiscale: «Non si può attribuire all’Istat la responsabilità di questa operazione. Ma nessuno obbliga il nostro istituto di statistica a mettere in prima pagina del suo comunicato i nuovi dati sulla pressione fiscale. Che senso ha evidenziare il calo di un punto percentuale del peso delle tasse sul reddito nazionale quando è frutto soprattutto dell’inclusione nel denominatore di attività che, per definizione, non pagano le tasse e i contributi sociali? Per favore, ci risparmino questa presa in giro. Oltre al danno di pagare le tasse anche per chi conduce attività illegali o opera nel sommerso, dobbiamo subire la beffa di vederci certificare una pressione fiscale più bassa di quel che è. E magari qualche politico cercherà di approfittare di questa operazione contabile per rivendicare la sua capacità di tagliare le tasse». Segnatevi quest’ultimo avvertimento, perché qualcosa ci dice che presto a qualcuno verrà l’idea di metterlo davvero in pratica.