euro-373008_640In questi giorni drammatici per la Grecia e per la tenuta dell’Unione europea, vengono in mente alcune analogie tra le manovre finanziarie degli Stati e il gioco d’azzardo. Proprio la Grecia, che fino a qualche anno fa sembrava un’economia in crescita, ha improvvisamente dovuto scoprire le carte non appena è scoppiata la crisi del 2008. Così è emerso che per vincere “giocava sporco”. I problemi sono cominciati quando, per rientrare nei parametri di Maastricht, il governo di Atene cominciò a truccare i conti. Solo dopo molti anni, nel 2009, il nuovo premier George Papandreou denunciò le manomissioni commesse dagli esecutivi precedenti.

Nel corso degli anni la Grecia ha chiesto sempre più soldi in prestito e il suo debito pubblico è arrivato a livelli mai visti. Il resto è cronaca delle ultime settimane, con l’Europa che chiede al governo di Alexis Tsipras tagli e sacrifici molto pesanti per evitare il fallimento. Tutto questo riguarda anche l’Italia perché, come spiega Il Sole 24 Ore, «Lo Stato italiano è il terzo principale paese europeo creditore “official” della Grecia, con un’esposizione in termini di prestiti bilaterali, quota nei fondi salva-stati Efsf/Esm e nel capitale Bce che oscilla – a seconda dei calcoli – tra i 40 e i 65 miliardi ed è superata soltanto da quella di Germania e Francia. Questo calcolo funziona però fino a quando l’esposizione verso la Grecia viene circoscritta al credito istituzionale e ripartita formalmente e tecnicamente tra gli Stati dell’Eurozona sulla base dei rispettivi Pil e popolazione. L’Italia però diventa il paese europeo più esposto al rischio di un default della Grecia o di Grexit, quando l’esposizione viene misurata in altri termini, in base al debito pubblico e al rischio contagio: l’acuirsi della crisi greca aumenta l’avversione al rischio e fa salire i rendimenti dei titoli di Stato italiani mentre allo stesso tempo la fuga verso la qualità fa crescere i prezzi dei titoli di stato tedeschi e francesi, abbattendo il costo del servizio del debito pubblico in quei paesi».

Le crisi finanziarie dei sistemi capitalisti sono sempre più legate a questioni volatili, che i comuni cittadini, non adeguatamente alfabetizzati su questioni finanziarie, faticano a comprendere. Anche questo buio interpretativo aiuta a diffondere il panico. Era già successo nel 1929, durante la più grave crisi finanziaria che gli Stati Uniti ricordino. Spesso si fa risalire quella crisi alla sovrapproduzione di merci da parte degli Usa, che restavano invendute a causa delle difficoltà in cui versavano i principali acquirenti internazionali e il mercato interno. In realtà, anche allora l’azzardo finanziario ebbe un ruolo centrale, molto simile a quanto avvenuto nel 2008. «Negli anni successivi alla I guerra mondiale – scrive lo storico Marco Del Bufalo – negli Usa vi era stato inoltre un arricchimento veloce che, nella metà degli anni ’20, aveva fatto crescere l’idea della facilità di potersi arricchire grazie alle speculazioni finanziarie in borsa, spesso non legate a effettive attività produttive, ma all’idea che potesse esserci, quasi per natura, un ciclo virtuoso tra finanza, investimenti e produzione. Così non fu. Infatti, per acquistare titoli non serviva versare l’intera quota del loro effettivo valore, ma bastava un anticipo spesso solo del 30-50 per cento, lasciando i titoli comprati in garanzia. L’economia statunitense prima della crisi era largamente finanziarizzata, priva di qualunque pianificazione, fragile nei suoi consumi interni e negli sbocchi esterni, ma allo stesso tempo ottimista nelle sue infinite e possenti capacità di autoalimentarsi». Provate a sostituire la data nel testo dove si dice “metà degli anni ’20” con “primi anni Duemila” e vi sembrerà di leggere un articolo che si riferisce a fatti molto più recenti.

Allora come oggi, a influire in maniera decisiva sul mercato erano attori che possedevano più informazioni del comune cittadino, operatori finanziari presi in un vortice di moltiplicazione della ricchezza (per pochi ovviamente) che sul più bello li ha risputati nella realtà. Anche oggi, quando un’economia sembra correre, non è mai certo che le sue gambe non siano spinte da sostanze stupefacenti, come i titoli “tossici” o i conti truccati. «Come l’azzardo si diffonde tra gli strati della popolazione con le minori opportunità di miglioramento economico e sociale – scrive Marcello Esposito su Lavoce.info –, così la finanza tossica crea l’illusione di una crescita che finisce poi per infrangersi contro il muro della realtà. Sia a livello personale che collettivo, il prezzo da pagare è quello di un’iniezione sempre più potente di “rischio artificiale”».