Pubblichiamo una lettera di Ginevra Bompiani uscita qualche giorno fa sul Corriere. Si parla di una proposta per la deducibilità fiscale dell’acquisto di libri, una misura (tra le tante possibili) per rilanciare l’accesso alla cultura. L’appello ha trovato un’iniziale accoglienza da parte del governo dimissionario, per poi essere stravolta nel momento della conversione in legge.

Il 30 maggio 2013, l’Aie (Associazione italiana editori) ha rivolto un appello al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e ai ministri per i Beni Culturali e ambientali, dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in cui chiedeva che si potesse sottrarre nella dichiarazione dei redditi il 50 per cento della spesa per l’acquisto di libri. Nel testo faceva presente la «catastrofe libraria» degli ultimi anni (più del 20 per cento di lettori in meno) e la crisi che subivano tutte le attività legate al libro. Per convincere i suoi interlocutori faceva appello all’interesse dello Stato per la «salute mentale» dei cittadini e al risvolto economico che un incremento della lettura non potrebbe non avere. È interessante che non si facesse parola dell’argomento che dovrebbe per primo affacciarsi: l’importanza che riveste la cultura per un Paese e la centralità del libro come suo strumento. Forse all’Aie questo argomento è sembrato troppo ovvio perché valesse la pena di ricordarlo. Eppure, al di là delle ragioni economiche e dell’importanza della salute mentale del cittadino, la vera ragione per un simile intervento è proprio che un Paese, senza la sua cultura, smette di esistere. Cioè di avere un’identità. Perché questo è un Paese: la sua lingua, la sua memoria, le sue abitudini, il suo sguardo sul mondo, la sua capacità di pensare, di raccontare storie e di ascoltarle, insomma la sua cultura. Un Paese che non si prende cura di questo aspetto del suo modo di essere è destinato a quel che possiamo tranquillamente chiamare «barbarie», cioè a diventarsi estraneo, straniero, a „diventare un «Paese qualunque». E non sembra davvero un’esagerazione, guardando lo spettacolo recente del Parlamento, e la ridda di insulti e capricci che è diventata la nostra vita politica. Una vita semplicemente e radicalmente incolta.

Sembrava, prima di Natale, che questo appello fosse stato accolto, che la lunga noncuranza della politica italiana verso la cultura si stesse incrinando: il ministro Zanonato aveva proposto una legge che permetteva di detrarre il 19 per cento sui libri acquistati fino a un massimo di duemila euro all’anno, di cui mille per i libri in generale e mille per i testi scolastici, legge approvata dal Consiglio dei ministri, annunciata dal presidente del Consiglio e definita dal ministro Bray una «decisione storica». Copertura, 50 milioni (di fondi europei). Era un primo segno, e aveva oltre al valore economico e simbolico, anche quello di accomunare nel libro tutti quelli che lavorano per crearlo, produrlo, stamparlo e venderlo. Perché quando un libro si vende, se ne avvantaggiano il lettore, il libraio, l’editore, lo stampatore e l’autore, tutti uniti in una catena che in nessun punto si può spezzare (parliamo del libro cartaceo, cui questa legge si riferiva). I lettori hanno cominciato a tesaurizzare gli scontrini, i librai a organizzarsi. Ma… Ma il decreto, che ieri è stato incardinato in commissione Cultura della Camera dei deputati, da oggi è al Senato e deve diventare legge entro il 21 febbraio, è stato depauperato e stravolto: modificata la destinazione dal lettore generico allo studente delle scuole superiori, ridotta la copertura economica a circa 18 milioni e la detraibilità da duemila a mille euro, e identificato il libro come strumento scolastico. Infine sostituite le persone fisiche (i lettori) con gli «esercizi commerciali», cioè i librai (per la sola vendita di libri scolastici). Ancora una volta lo Stato italiano ha mostrato la propria indifferenza alla cultura, ai cittadini, alla parola data. Tre cose, il rispetto delle quali, mi sembra, formerebbe l’onore di una classe dirigente.