«In linea di principio, se vi fosse un serio tentativo di dare alla cultura la giusta priorità nell’agenda politica del paese, vi potrebbe essere una seria possibilità che i settori culturali e creativi diano un importante contributo nel ridisegnare la tanto agognata formula per una nuova crescita per l’Italia». Alla faccia di chi vede gli investimenti in cultura come un aspetto naif, da confinare alle spese accessorie, questa è una delle conclusioni contenute nel rapporto pubblicato il 25 settembre dal commissario europeo alla Cultura Androulla Vassiliou. L’utilizzo reiterato dell’aggettivo “serio” fa tornare alla mente le parole dello scrittore Ennio Flaiano, secondo cui «La situazione politica in Italia è grave ma non è seria».
Come anche noi abbiamo già detto tante volte, il rapporto sostiene che «al momento il Paese non ha una strategia nazionale, per quanto generale o provvisoria, per lo sviluppo del suo settore culturale e creativo». E, oltre a non investire, si taglia: -35 per cento tra il 2008 il 2011, per arrivare allo 0,2 per cento del pil. In cifre assolute, l’Italia ha a disposizione per il settore 5,6 miliardi di euro contro i 7,5 miliardi della Francia o i 12,5 miliardi della Germania. «Il principale ostacolo a una svolta è la tendenza della dirigenza politica italiana a usare la cultura come una misura anticiclica e come ammortizzatore sociale, o come aree protette per la creazione di rendite di posizione», costituendo «sacche di privilegi e inefficienza nei settori culturali».
E poi c’è la demotivazione che dissuade i giovani dal dedicare il proprio percorso di studi al settore culturale, perché visto come sicura fonte di disoccupazione. Quindi, o si sceglie un’altra strada, oppure si va all’estero, dove il mercato è più ricettivo. Col risultato che nel tempo la popolazione italiana è sempre meno interessata all’arte e al bello, e non sa più come viverli, né come valorizzare le proprie virtù senza snaturare la specificità dei luoghi. «Lo stesso turismo culturale soffre del progressivo impoverimento della scena e della vitalità culturale delle “città d’arte”, che stanno progressivamente rimodellando il loro tessuto urbano e sociale per adattarsi in modo incondizionato ai bisogni e alle attese dei turisti, trasformandosi così, gradualmente, i “parchi a tema” senza vita».
In questo senso, diventa paradigmatico il caso di Castellabate, paesino in provincia di Salerno in cui è stato ambientato il film “Benvenuti al Sud” (remake del francese “Giù al Nord”, del 2008). Ne scriveva risentito Marco Nese a fine agosto sul Corriere: «L’attore Claudio Bisio e i produttori di quel filmetto intitolato “Benvenuti al Sud” dovrebbero essere chiamati a risarcire gli abitanti di Castellabate, nel Cilento. Hanno rovinato un paese, il mio paese, che era un posto tranquillo e delizioso. L’hanno trasformato in una casbah invivibile. Da quando è uscito il film, Castellabate è diventata meta di pellegrinaggi di migliaia di beceri individui provenienti soprattutto dall’area napoletana. Arrivano perfino in pullman con viaggi organizzati al solo scopo di farsi fotografare nel posto in cui è stata girata una certa scena. […] “Ci potete dire dove sta ‘a piazzetta? Quella dove c’è la posta”. Davanti al silenzio dell’interlocutore, insistono: “Non ne potete più?”. Ecco, non se ne può più. Poi vanno sulla piazzetta e s’indignano perché non trovano la posta. E lì comincia un’animata discussione sul perché non si riesce a trovare la posta, eppure doveva essere proprio in quell’angolo. Anche a spiegargli che la posta non è mai esistita e che era una finzione scenica, non ci credono. “No, perché era proprio un ufficio vero”».
È ovviamente un caso limite, ma occorre ragionare sul fatto che oggi, nel 2012, questi ignari turisti “a casaccio”, più che “per caso”, hanno comportamenti che ricordano la reazione del pubblico che assistette, nel 1896 a Parigi, a L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat, il celebre film dei fratelli Lumière in cui si mostra l’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat. Lì il pubblico rimase esterrefatto dal realismo dell’immagine, e la leggenda vuole che alcuni siano stati presi dal panico per timore che il treno potesse fuoriuscire dallo schermo e investirli. Oggi, a ben più di un secolo da quella proiezione, siamo un pubblico che ha perso l’innocenza di allora, ma che davanti al treno in corsa un’occhiata all’uscita, se può, la dà ancora.