Far ripartire la macchina culturale italiana. Sì, ma da dove? Il caso Diego Della Valle-Colosseo indica una possibile strada. L’imprenditore marchigiano ha infatti stipulato col commissario straordinario all’archeologia di Roma e Ostia, Roberto Cecchi, un contratto di sponsorizzazione, che riserva per quindici anni il marchio del Colosseo alla sua Tod’s, l’azienda di famiglia. In cambio è pronto un investimento da 25 milioni di euro che rimetterà in forma smagliante (tutto bianco, protetto da alte cancellate e con un bel bar-caffetteria) uno dei simboli della Capitale più conosciuti al mondo. In conferenza stampa, Della Valle è stato molto chiaro: «Noi non facciamo beneficenza». Nel senso che, per l’appunto, di investimento si tratta, quindi qualcosa deve tornare indietro a chi si impegna a pagare. E cioè quella preziosa risorsa, non quantificabile con precisione, ma voluta da tutti, la visibilità. Purché se ne parli, insomma, e in questo caso più che bene, ci mancherebbe. Ma non di solo passaparola vive il marketing, e quindi sui tendoni da due metri e 40 che nasconderanno i restauri campeggerà il logo dell’azienda. Dimensioni tutto sommato contenute (previste dal contratto), rispetto ad altre operazioni pubblicitarie ben più invadenti, come quelle viste nel corso degli ultimi restauri milanesi (Duomo, Porta Romana), tanto per citare un esempio. Il logo Tod’s finirà poi sugli oltre cinque milioni di biglietti staccati ogni anno ai cancelli del monumento, da qui al 2016. Immaginatevi quante decine di milioni di persone porteranno a casa, come souvenir, quel biglietto. Si sa, entrare nel portafogli delle persone è il modo più astuto per essere ricordati. E in questo modo il marchio Tod’s si assicura un giro intorno al globo capillare e continuativo per i prossimi tre lustri. Mica male. Non dimentichiamo poi i mercati che, si sa, sono sensibili un po’ a tutto. Il 24 giugno, infatti, si leggeva: «Le azioni della società fondata e guidata da Diego Della Valle guadagnano terreno all’indomani della presentazione del restauro del Colosseo».

Male fa chi definisce l’imprenditore «un mecenate del XXI secolo», perché il mecenatismo non prevede alcun ritorno per chi ci mette i soldi. Riprendiamo le parole di Vittorio Emiliani su l’Unità dell’11 luglio: «Qui bisogna chiarirsi le idee: queste sono sponsorizzazioni con un chiaro profitto privato sotto forma di ritorno di immagine; il mecenatismo è altra cosa. Lo si può capire con una gita ad Ercolano. Qui opera da anni la donazione di David W. Packard, dell’omonimo gigante dell’informatica. Che, in silenzio, finanzia, attraverso la Packard Humanities Institute, manutenzione ordinaria e straordinaria di quel magnifico sito […] Sono state ripristinate le fogne e le canalizzazioni della città antica. […] È stato messo a norma l’impianto elettrico dando ad Ercolano una efficiente illuminazione notturna. Senza contropartite? Esatto. Questo si chiama mecenatismo». Non sta a noi dire se una delle due vie sia giusta e l’altra sbagliata. Ciò che conta è che grazie a due iniziative private l’Italia sta recuperando due siti di inestimabile valore. Ma crediamo nell’importanza di chiamare le cose col proprio nome.