foto di gi+cri fargilli

«Trattasi di un bene comune, da difendere a prescindere dalle appartenenze politiche. […] Per quel che mi riguarda posso dire che parlano per me la mia storia e il mio lavoro di questi anni, svincolato da interessi di natura politica. Se mi sono esposto con questa decisione difficile, pur sapendo che ne pagherò le conseguenze, l’ho fatto in coscienza, come cittadino, professionista e onesto dirigente della Regione».

La dichiarazione va contestualizzata. La prima bandierina va messa sul bene comune in questione, ossia Palazzo Riso, museo d’arte contemporanea di Palermo (unico museo siciliano con questa vocazione). A parlare è il suo direttore, Sergio Alessandro, in un’intervista rilasciata a Guidasicilia. La decisione di cui parla è quella di sospendere le attività del museo, di fatto chiudendolo e congelando le mostre attuali e in programma.

Difficile ricostruire la vicenda, troppi i lati oscuri che non arriviamo a vedere. A gravare sul drastico provvedimento, secondo il direttore, la mancata erogazione dei fondi dell’Unione europea (12 milioni di euro), bloccati dalla Regione, oltre all’apertura di un cantiere di ampliamento che innalzerà di un piano la struttura che sorge in corso Vittorio Emanuele, intervento del tutto incompatibile con il normale funzionamento del museo.

La questione è però più probabilmente di natura politica. Appresa la notizia della chiusura, avvenuta l’11 gennaio, il governatore Raffaele Lombardo ha subito voluto smentire le motivazioni, mentre l’assessore regionale ai Beni culturali e all’identità siciliana (un concetto che un giorno qualcuno ci dovrà spiegare) Sebastiano Messineo ha assicurato che «La chiusura è una bufala. Il museo non sospenderà l?attività. La notizia è destituita di fondamento, la Regione non ha alcuna intenzione di chiudere il museo».

Ad alzare la voce contro la serrata è stato Gianfranco Micciché, di Forza del Sud. Dal suo blog si legge «La banda Lombardo-Armao & co ha colpito ancora, ma questa volta è davvero troppo. Chiudere il Museo Riso equivale a chiudere la porta in faccia alla Sicilia, che si vede defraudata di un’eccellenza. È l’ennesimo segno, questa volta fin troppo vistoso, dell’irresponsabilità, dell’incapacità, dell’immoralità di un governo che oggi ha superato ogni limite di sopportazione».

Arriva anche (un po’ tardi, come gli ospiti importanti) l’ipotesi della solita partita a scacchi delle nomine. Secondo una fonte de Linkiesta «tutto nasce per revocare il direttore del Museo e mettere al posto dell’attuale direttore la moglie di un altro importante dirigente della Regione Sicilia vicino a Lombardo». L’interessato ha prontamente smentito.

Insomma, pare che in tempi di sobrietà coatta, ci siano ampi residui di cara vecchia Italietta sparsi qua e là per il Paese. In tutto ciò, dispiace veder traballare un altro importante istituto culturale, dopo il museo Madre di Napoli (ne parlammo alcuni mesi fa). Perché non è solo il viso del capo del governo, o il segno “più” delle borse a dare credibilità a un Paese. La gestione della cosa pubblica, specie in campo culturale e in casi di eccellenza come quello in oggetto, sono parametri importanti per chi ci guarda. E per i cittadini stessi, perché un museo che chiude è un’occasione che annega nel mare delle possibilità.

Chiudiamo con le parole di Francesco De Grandi, uno degli artisti che si sono mobilitati in difesa del Riso: «Noi oggi non rappresentiamo questa o quella parte [politica], vorremmo solo che l’assessorato regionale e la direzione del Museo si incontrassero pubblicamente, davanti a noi cittadini, per chiarirsi e chiarire a noi quali rischi effettivamente corra il Museo. […] Si tratta dell’unico museo d’arte contemporanea, sarebbe una grave perdita per Palermo».