Nel suo intervento a Che tempo che fa di domenica 9 marzo, il neo presidente del Consiglio Matteo Renzi ha lanciato un messaggio che ora sarà sua responsabilità tradurre in realtà. Alla domanda del presentatore sui crolli di Pompei, Renzi ha infatti risposto parlando della propria accezione di bene pubblico, che non si definisce tale per il fatto che sia gestito esclusivamente da soldi pubblici. Anzi, ha detto Renzi, il patrimonio pubblico può funzionare anche meglio se si apre all’intervento di finanziatori privati. Bisogna però che costoro non si trovino troppi bastoni tra le ruote quando decidono di intervenire, aggiungiamo noi. Ovvio che spetti al Ministero dei beni culturali il compito di valutare i termini della collaborazione tra pubblico e privato e stabilire i termini dell’intervento, sia esso un restauro, un’attività di promozione o simili. La spinta del nuovo governo dovrà andare verso la rimozione di tanti gravosi passaggi burocratici che spesso spingono i candidati sponsor a defilarsi dalle iniziative.
Ne è un esempio il caso di Pompei, che nel 2011 fu oggetto di attenzioni da parte del consorzio francese di multinazionali Epadesa, che si offrì di restaurare il sito archeologico con un finanziamento di 200 milioni di euro. La vicenda è ricostruita in un articolo a firma di Mattia Feltri uscito domenica 9 marzo su La Stampa, in cui si spiega come nel corso degli anni, ministro dopo ministro, premier dopo premier, Epadesa si sia sempre trovata a rincorrere la controparte italiana, che si è mostrata diffidente verso il consorzio, fino a fare sfumare l’affare, anche a causa di un avvicendamento alla dirigenza e alla tornata elettorale che portò alla presidenza François Hollande. «Forse contribuirono le lotte di competenze – racconta Feltri – le gelosie e gli interessi che da sempre agitano il Mibac. I contatti proseguono ma così macchinosi che Epadesa decide di coinvolgere l’Unesco: nel giugno del 2011 viene informata del piano di finanziamento la direttrice generale Irina Bokova. E alla fine di novembre, nella sede parigina dell’Unesco, davanti al direttore per la Cultura, Francesco Bandarin, i rappresentanti di Epadesa e del ministero devono firmare il protocollo. Da pochi giorni a Palazzo Chigi c’è Mario Monti, al Mibac è andato Lorenzo Ornaghi. Ma a Parigi, da Roma, non arriva nessuno».
Secondo Riccardo Villari, sottosegretario alla Cultura durante il ministero di Giancarlo Galan, i francesi volevano «la certezza che a fare i lavori fossero le imprese del consorzio senza passare per alcuna gara d’appalto. Forse pensavano che con i quattro soldi che ci offrivano si sarebbero potute forzare regole che immaginavano evidentemente flessibili». In realtà, secondo una fonte Unesco, il consorzio chiedeva sicurezza verso possibili infiltrazioni camorristiche: «Il consorzio, per paura della camorra, chiedeva di condividere le gare di appalto, di vietare i subappalti e un presidio di polizia sui cantieri. Non so quanto pesarono le richieste, ma pesarono senz’altro». Ecco, nelle scorse settimane a Roma c’è stato un ricambio che si autoproclama epocale, che vorrebbe andare oltre le logiche che hanno bloccato tante buone iniziative negli anni passati. Staremo a vedere se le prossime occasioni saranno sfruttate meglio (sempre che non si riesca a riprendere i contatti con i francesi).
Di sicuro, va aggiunto, a Roma continuerà a restare Riccardo Villari, oggi senatore, che allora accusava i francesi di voler imporre regole poco trasparenti sulla gestione dei lavori. Uno che dal suo ingresso in politica ha militato per Dc, Pp, Udeur di Mastella, Margherita, Pd, Radicali, Mpa di Lombardo e ora Forza Italia (qui sono spiegate meglio tutte le tappe). Lo stesso che oggi parla di un «sistema vischioso, chiuso, corrotto, in cui girano molti denari, posizioni di potere, un sistema che si nutre di Pompei e tenuto insieme dalla tacita intesa per cui dentro non ci deve entrare nessuno».