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Foto di Giuseppe Moscato

Un articolo di Paolo Valoppi, studente, per il blog Minima & moralia, sulla sua esperienza alla Casa Museo di Dante, a Firenze, e conseguenti considerazioni sul ruolo attribuito alla cultura e al patrimonio artistico in Italia.

«Non ci sono riduzioni per studenti».

Una volta ancora, con lo stesso tono ammonitorio, tassativo, per nulla conciliante, o dispiaciuto. Il tono di chi si è trovato tante volte – non sempre per colpa sua – in questa spiacevole situazione e sa che deve avere il polso fermo, inamovibile; non deve fare eccezioni, sconti, per l’appunto.

«Non ci sono riduzioni per studenti».

Sono alla Casa Museo di Dante, a Firenze, e alla biglietteria mi dicono che la riduzione è prevista solo per i cittadini italiani over 65 e per i gruppi organizzati. E in realtà anch’io sono con un gruppo organizzato, una decina tra amici e colleghi dell’università. Siamo a Firenze perché la professoressa di un corso che frequento ha organizzato una visita alla Biblioteca Medicea Laurenziana – un patrimonio librario tra i più importanti al mondo – e abbiamo deciso così di trattenerci fino a sera e visitare la città.

«Non siete un gruppo organizzato. Dovete essere più di quindici. E poi potreste anche esservi incontrati qui fuori. Io questo non lo so».

L’insinuazione, smorzata da una goffa dichiarazione d’innocenza (io questo non lo so, non c’ero, non ho visto niente), mi ricorda i buttafuori che fanno entrare nei locali solo i maschi accompagnati da altre donne, amiche o fidanzate, e non quei manzi ruspanti – sempre soli, tra uomini – che pur di entrare nei club provano ad accalappiare delle ragazze di fronte alla discoteca facendo finta di essere in loro compagnia.

«E poi potreste anche esservi incontrati qui fuori. Io questo non lo so».

La funzione che la donna alla biglietteria sembra esercitare, l’alibi che sottotraccia attraversa le sue parole, è esattamente lo stesso del “guardiano” dei locali notturni: proteggere il fortino dalle incursioni dei furbastri. Certo, come dicevo, gli ordini spesso arrivano dall’alto, così per il bodyguard che per la dipendente del museo, e specialmente quando si tratta di prezzi c’è poco che un dipendente possa fare. Ma è il sospetto, l’allusione, la sfumatura che c’è in quell’illazione che mi dà la misura di un problema ben più grande dello sconto mancato. Non solo un problema legato all’accessibilità del patrimonio storico e artistico – in questo caso a pagamento e senza riduzioni –, una condivisione che a mio avviso dovrebbe essere del tutto libera e gratuita, ma un problema di percezione del patrimonio, della sua funzione, del suo esercizio, della sua comprensione. L’idea del patrimonio come un bene superfluo ed accessorio, immateriale, informe, un intrattenimento di lusso, un passatempo sofisticato ed esclusivo; «una via di fuga verso le “cose belle”», come scrive Tomaso Montanari nel suo A cosa serve Michelangelo?:

La storia dell’arte è ormai universalmente associata al disimpegno e al divertimento: sui giornali se ne parla solo per pubblicizzarne gli «eventi», all’università è ridotta a disciplina ausiliare della cosiddetta «scienza del turismo», e nell’immaginario collettivo la si ritiene (nel migliore dei casi) un anestetico di lusso, cioè una via di fuga verso le «cose belle» che consentono di non pensare alla «brutta realtà».

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