Dopo la proposta tedesca di tagliare i fondi alla cultura per salvarla, pubblichiamo un estratto da un articolo di Michele Dantini apparso sul sito Doppiozero. Egli rifiuta la diffusa dicotomia tra “statalisti” e “mercatisti” della cultura; al contrario, propone una visione di quest’ultima come ambito di ricerca, contrapposta a quella di patrimonio da cui attingere.
[…] Vorrei prendere le mosse da una provocazione apparente: considerare cioè il “patrimonio” italiano a partire dal contemporaneo, non dall’Antico, per richiamare l’attenzione su distorsioni o impedimenti interpretativi, su stereotipi e cliché correnti a livello internazionale. Che cosa significa “Italia”? Assistiamo a un vigoroso ritorno di interesse per l’arte italiana postbellica, in particolare spazialismo, monocromo e Arte povera. All’attuale fortuna di mercato non corrisponde però una migliore conoscenza di opere, artisti e soprattutto scenari storici o sociali, al contrario: appare chiaro che nell’arte contemporanea italiana si cercano, spesso del tutto impropriamente, dimensioni neofolkloriche e vestigia “pittoresche” di un remoto passato preindustriale.
Quali le nostre responsabilità nel sostenere l’equivoco di un’inimitabilità relitta, tale non da destare emulazione ma da prefigurare isolamento? Contestiamo le metafore impiegate nel discorso corrente. Il “patrimonio” non “giace” a mo’ di “giacimento” di terre rare, minerali auriferi o “petrolio”. Il patrimonio piuttosto attende l’esecuzione come una partitura musicale. Non amiamo Monteverdi per gli spartiti autografi, ma perché ottimi interpreti hanno restituito e restituiscono la sua musica. E così le fondamenta di un tempio, un torso mutilo, un quadro di Alessandro Magnasco, l’intera storia dell’arte: attendono interpreti. Vogliamo porre in altro modo la questione? Perché, nel discutere di “eredità culturale”, parliamo sempre di “industrie creative” o di “indotto”, mai di ricerca? Non è chiaro che l’“eredità culturale”, intesa a mo’ di insieme di documenti, rischia di restare muta se non è sostenuta da un adeguato esercizio critico e storiografico? La rinuncia a politiche formative adeguate all’“eccellenza” ricevuta in sorte non dovrebbe apparirci per più versi suicida? […]
Chi parla di politiche della cultura dovrebbe sapere che oggi in Italia esiste un’emergenza. Dal 2009 gli investimenti pubblici nel settore “cultura” sono caduti del 17%. Le restrizioni (i detestabili “tagli lineari” tremontiani) non hanno colpito tutti in modo uguale, ma le posizioni early career in modo particolare: vale a dire artisti, attori e ricercatori giovani, innovativi, posti al di fuori di reti affiliative o familiari opache e vincolanti. […] Esiste oggi, a livello globale, una formidabile domanda di diversità storica. Esistono anche sufficienti garanzie che il “patrimonio” italiano sia conosciuto nelle sue peculiarità e amministrato in modo responsabile nell’ambito delle retoriche correnti sulla “valorizzazione”? Le specificità culturali, antropologiche e sociali italiane sono maturate attraverso una storia plurimillenaria scandita da interruzioni e cesure sanguinose […] L’unicità che cerchiamo è forse da rintracciare proprio nell’estrema commistione di paradigmi, lingue e culture, nella frammentarietà e dispersione di voci o documenti; nei caratteri come di palinsensto di un’eredità culturale che appare doversi riscrivere generazione dopo generazione per effetto di eventi storici di formidabile intensità e portata, e che ha equivalenti nelle tradizioni diasporiche piuttosto che in quelle di stati nazionali.
Lasciato a se stesso e amministrato burocraticamente come ‘bene culturale’, in assenza di valida ricerca storico-artistica e reinterpretazioni o riattivazioni costanti, il ‘patrimonio’ non solo non ci aiuta a farci meglio conoscere e apprezzare, ma finisce per consolidare fraintendimenti ‘etnografici’ anche nell’ambito che più potrebbe guadagnare al paese crediti di innovazione sociale e culturale, quello contemporaneo. Vale in generale questo: la grande filologia storico-artistica è sempre una filologia comparata, che lo si affermi o meno. Avvicina e interpreta le opere in una prospettiva ampia e cosmopolita, fosse pure per negarla, come momenti di faglia, ambiti di negoziato (amoroso o conflittuale) tra tradizioni e ambiti linguistici diversi, per cogliere magari e tratteggiare più acutamente l’elemento differenziale.
L’interpretazione storico-artistica toglie (nel senso che redime) le vestigia del passato dalla mortificante separatezza cui sono altrimenti destinate. La prospettiva del “bene culturale” è invece antistorica: repertoriazione e conservazione materiale della singola opera o frammento di opera acquistano priorità sul ripristino delle connessioni storiche. Le vestigia restano vestigia. Possiamo scegliere tra opposti futuri comunitari. Ai sostenitori del turismo come prima industria nazionale obiettiamo che non è chiaro quali professionalità, quale “innovazione”, quale crescita economica e civile sia ragionevole attendersi da un’attività domestica, una rendita. Dovremmo evitare in ogni modo di chiuderci da soli nella riserva etnografica dell’“indotto”: il tema della sovranità linguistica, culturale e storiografica si intreccia a elementari diritti di cittadinanza planetaria di cui potremmo a breve risultare sprovvisti.