Giovedì 23 giugno 2016 diventerà probabilmente una di quelle date da ricordare tra le tappe fondamentali della storia europea. La quantità di scritti che sono stati prodotti da allora per commentare il risultato del referendum inglese e la vittoria della Brexit è già notevole, ma vogliamo provare anche noi a capire qualcosa di come siamo arrivati fin qui. Innanzitutto, la decisione dei cittadini inglesi di uscire dall’Unione europea è probabilmente molto legata alla crisi economica iniziata nel 2007/2008. Nei programmi politici dei partiti del Regno Unito, di qualsiasi orientamento, le critiche all’Ue e la possibilità di indire un referendum per uscirne non sono mai mancate. Finché però l’economia del Paese ha conosciuto un andamento espansivo, nessuno tra coloro che hanno governato ha pensato seriamente di proporre una consultazione per la Brexit. Man mano che le cose hanno iniziato a peggiorare, e dopo l’uscita di scena di Tony Blair, questa possibilità è tornata a farsi più concreta.

Può sembrare una questione puramente inglese, eppure non lo è. Lo dimostra il successo di partiti e movimenti antieuropeisti riscosso in diversi altri Stati europei negli ultimi anni. Ma non si tratta solo di essere contrari all’Unione europea. Si tratta più in generale di un sentimento di rabbia e indignazione verso una classe di decisori che si percepisce come lontana, impalpabile nel rapporto con i cittadini, illegittima, non rappresentativa. Questo vale all’interno dei singoli Stati, e ancor di più nei confronti della burocrazia europea. Il sentimento (in quanto tale diverso dal pensiero razionale) è che gli esperti hanno stufato: o sono incompetenti o stanno cercando di fregarci, quindi potere al popolo con i messaggi semplici del populismo e possibilmente un uso massiccio della democrazia diretta e quindi dei referendum.

Di fronte all’incompetenza e all’inadeguatezza (dei rappresentanti della “vecchia” classe dirigente), si risponde con altra incompetenza, quella dichiarata del cittadino prestato alla politica (in Italia non è una novità degli ultimi anni, già il percorso di Silvio Berlusconi cominciò così, voleva “mettere a posto le cose” e poi tornare a occuparsi delle sue aziende, è andata diversamente). Per capire quanto pericoloso e imprevedibile sia lo strumento della democrazia diretta basta chiedersi cosa succederebbe se si indicesse oggi un nuovo referendum per la Brexit. Vincerebbe di nuovo il leave? O lo scossone emotivo e finanziario registrato in questi pochi giorni basterebbe a far cambiare idea a chi ha voluto dare un “voto di protesta” (votando leave nella convinzione che comunque avrebbe vinto il remain) e porterebbe alle urne i tanti favorevoli al remain che non sono andati a votare? A volte il referendum ha il merito di tagliare corto su argomenti in cui la politica si dimostra troppo lenta o indecisa (vedi aborto e divorzio in Italia), altre volte si limita a rappresentare quella che sui giornali viene definita “la pancia del Paese”, che spesso non rappresenta la sintesi di un pensiero ma un’opinione puntuale su un argomento sul quale normalmente si è poco o male informati.

È davvero difficile prevedere gli scenari che seguiranno al voto britannico. Ci sarà il cosiddetto effetto emulazione in altri Stati? Le elezioni spagnole, con il successo dei partiti tradizionali, sembrano per ora dire di no. Rientrerà lo choc finanziario che sta colpendo le banche di tutto il mondo in questi giorni? Molto dipende da come sarà messa in pratica la procedura di uscita (in concreto, al momento, non è cambiato nulla dal punto di vista burocratico nei rapporti tra Regno Unito e Ue). Come fa notare Giuliano Ferrara sul Foglio, «c’è Brexit e Brexit. Quella di Farage è indipendentista, quella di Corbyn è socialista (ha fatto la mossa ma in realtà governa un’opinione laburista di provincia ostile al capitalismo), quella di Boris Johnson, a parte l’aspetto ludico-edipico del suo scontro con Cameron e con l’establishment finanziario, dovrebbe essere una Brexit compatibile: riprendiamoci il controllo per giocare meglio il nostro ruolo di liberisti nel commercio e di innovatori nel rischio».

Chi prenderà in mano il governo del Paese (il primo ministro David Cameron ha annunciato le dimissioni) avrà un ruolo importante nel decidere che colore dare a questa Brexit. Nessuno impedisce al futuro Regno Unito ex-membro Ue di riprendersi la propria autonomia economica e politica mantenendo un atteggiamento accogliente nei confronti di capitali e persone straniere. Oppure potrebbe materializzarsi la Brexit della xenofobia e del razzismo, che usa la scusa della critica (più che legittima) all’Unione europea per giustificare la propria insofferenza verso chi è arrivato nel Regno Unito per cercare lavoro. Dimenticando così che molte volte chi cerca lavoro, quando le cose vanno bene, si trova poi nelle condizioni di offrire lavoro, facendo crescere i numeri dell’economia del Paese che lo ospita. Come ha scritto il New York Times (traduzione nostra), «il voto inglese dimostra che per molti cittadini l’identità conta più dell’economia. Essi pagheranno un prezzo alto (letteralmente) per preservare un ordine sociale che li fa sentire al sicuro e potenti». Chissà se lo saranno davvero.

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